Mastodon "Emperor Of Sand"

Francesco Sicheri 21 giu 2017
Dopo tre anni di attesa, il nuovo album dei Mastodon è finalmente fra noi, e pertanto le domande che i fan si stanno ponendo sono molte. L’annuncio dell’uscita è stato ufficializzato dalla pubblicazione di alcuni brani d’anteprima, che hanno parzialmente fugato le più grandi paure di chi era rimasto scottato dalla fragilità di Once More ‘Round The Sun e, in generale, dal distacco dalle origini prog metal che gli ultimi due episodi discografici avevano messo in mostra.
Il nuovo Emperor Of Sand giunge quindi sugli scaffali con un gravoso compito sulle spalle, quello di riportare le coordinate del gruppo su binari adeguati al ristabilire le gerarchie di una scena musicale che dalla fin dalla loro comparsa ad inizio anni 2000, aveva innalzato i Mastodon ai più alti livelli.

BRANN DAILOR: da quando è uscito Crack The Skye abbiamo capito di essere fortunati al punto da avere questa bellissima cosa chiamata Mastodon dove poter sfogare molte delle cose più pesanti e tragiche che ci colpiscono nella vita di tutti i giorni. Per quanto ci riguarda i Mastodon sono effettivamente un contenitore per tutto ciò che ci opprime e ci fa soffrire. Il dolore non sparisce, ma grazie alla band ...
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info recensione

MASTODON
Emperor Of Sand
Reprise Records
diventa qualcosa che si trasforma in musica.

Un artwork di copertina eloquente è il biglietto da visita più calzante per un album come Emperor Of Sand, che dopo otto anni riporta i Mastodon nella sfera del concept album, e lo fa con un progetto di alta cinematografia musicale. Se i primi quattro capitoli della discogragia, Remission, Leviathan, Blood Mountain, e Crack The Skye, avevano esplorato il tema degli elementi della natura e degli esseri elementali (rispettivamente fuoco, acqua, terra, aria), il nuovo album si butta su qualcosa di molto più tetro come il rapporto fra il tempo e la morte, entrambi concetti con cui i quattro membri del gruppo hanno sfortunatamente dovuto fare i conti nella loro vita privata.
Sultan’s Curse è quindi l’opener di Emperor Of Sand, un brano che incarna molto bene le trame sonore che ricorreranno poi lungo tutta la scaletta e che ci riconsegna il gruppo nella forma in cui avremmo voluto ascoltarlo anche nel precedente capitolo. Il carico imposto dai temi trattati si sente subito forte nel suo stringere i brani in un ferale abbraccio che allarga le sue grinfie proprio a partire dalla maledizione lanciata con la traccia d’apertura.

BRANN DAILOR: La morte di mia sorella, la morte del fratello di Brent, il cancro diagnosticato alla moglie di Troy, e la morte della madre di Bill… tutte queste cose finiscono nella nostra musica, cercando di trasformarle in qualcosa di bello, in qualcosa di buono.

A seguire Sultan’s Curse irrompe Show Yourself, che è il contributo più marcatamente pop di tutta la carriera della band, ma malgrado questa definizione possa far infastidire molti la realtà è che il brano è una di quelle botte di energia che affondano il colpo soprattutto grazie alla loro cantabilità. È diretta e senza fronzoli, una traccia quadrata, guidata da una metrica vocale scanzonata che Dailor interpreta accompagnato nei ritornelli e nel bridge da Senders e Hinds. Radiofonica al punto giusto, Show Yourself si esaurisce in poco più di tre minuti, ma dipinge comunque un mondo sonoro interno al lotto, finendo per dare il La anche alla seguente Precious Stones. Quest’ultima ha dalla sua un riff portante in pieno stile Mastodon, si rifà alle influenze stoner che il gruppo ha messo in mostra in maniera muscolosa soprattutto nelle ultime due, ma si tuffa poi in una cavalcata arrembante e diretta verso un crescendo che viene interrotto sul finale soltanto dal rientro poderoso del main riff, utilizzato questa volta come gancio per la chiusura.
Steambreather ed il suo mid-tempo acquietano la foga ma di certo non il pathos, che si ricarica fra le fila del brano per poi esplodere nuovamente nella sfuriata innescata dal divampare di Roots Remain. L’apporto di Dailor alla realizzazione di questo nuovo album è ingente, probabilmente ancor più di quanto visto in passato, non solo in qualità di batterista, ma anche e di songwriter, cantante e, infine, di tastierista. Le molteplici abilità del nostro sono ormai fin troppo note, ma non si finisce mai di stupirsi nell’apprezzare composizioni che mettono in mostra un playing solido e dirompente, eppure sempre funzionale alla riuscita generale del brano. Dailor non è mai troppo invadente, anche quando lascia andare quei fill tentacolari divenuti ormai un marchio di fabbrica.

BRANN DAILOR: Per questo album volevo che la batteria suonasse come una “versione aggiornata” dei dischi rock anni ’70, volevo un suono che fosse grosso e presente, ma anche preciso, così che le parti di batteria suonassero davanti alle altre tracce senza dare loro fastidio. Il mio obbiettivo era quello di dare il meglio di me stesso, ma non dovevo intralciare i brani in alcun modo, perché questi brani in particolare richiedono spesso delle forme più semplici, e pertanto non volevo rischiare di strafare.

A fare da filo conduttore per tutta la durata della scaletta sono le armonizzazioni dei ritornelli, allacciati di brano in brano dall’intrecciarsi delle voci di Sanders, Hinds e Dailor, i quali, se di tanto in tanto peccano di ripetitività, riescono sempre a cavarsela in corner grazie ad una buona orchestrazione generale. Word To The Wise porta alla luce un tappeto di synth che accresce la potenza del gruppo sottolineando in background i momenti più epici del brano, come avviene nella ripresa del ritornello dopo lo stop che decreta il termine della sezione solistica. Ancient Kingdom e Clandestinity sono un’accoppiata potente, due brani estremamente validi, in cui i synth nuovamente hanno un interessante ruolo nel dipingere scenari che sembrano tendere alla sfera più propriamente psichedelica. Malgrado la bontà della loro fattura potremmo però considerare questi due brani come gregari piuttosto che come singoli di spicco, e per quanto questa valutazione possa sembrare troppo dura, è giusto sottolineare come sia probabilmente dovuta da ciò che segue nella tracklist.
Andromeda è il vero gioiello della scaletta, guidata da uno dei miglior riff composti da Bill Kelliher, che in fase di scrittura dell’album è stato il vero braccio destro di Dailor. Andromeda è anche uno degli sforzi più potenti della band da qualche tempo a questa parte, e come accadeva in alcuni dei momenti più riusciti di Crack The Skye, anche questa volta la potenza dirompente del brano deriva da un sapiente uso della dinamica e delle fasi di passaggio. Se l’apertura della traccia è caratterizzata da un’anima più esplosiva, è l’entrata in scena di un’apertura melodico/ambientale a segnare il vero scarto dal punto iniziale, è lo spazio interposto fra gli affondi a dare alla composizione quel gap necessario ad enfatizzare il rientro in campo delle staffilate fornite dalle chitarre di Hinds e Kelliher.
Scorpion Breath, dopo un’introduzione in arpeggi acustici dal clangore metallico, sfocia in un riff ampio, dal senso quasi circolare, il quale immediatamente traghetta ad una nuova sezione, che finisce per essere il cuore del brano, lasciando in più di un’occasione con la sensazione di voler risolvere in un ritornello che stenta ad arrivare. Vale la pena aspettare il dovuto, prima di chiudere c’è spazio però un’ultima monolitica ed epica calata di scure.
A calare il sipario sull’album troviamo Jaguar God, che con i suoi 7:56 di durata è anche il brano più corposo. È la traccia più articolata in quanto a varietà stilistica, parte come una ballad e per i primi tre minuti sembra non voler mai decollare verso lidi più estremi. Ma il cambio arriva e colpisce dritto al muso, regalando però intervalli melodici di grande respiro, entro i quali il gruppo sfoggia il meglio della propria prestazione canora. Il brano prosegue a briglia sciolta fino ad un’ultima, e più ampia, sezione melodica, che richiama l’esposizione della struttura armonica iniziale per lasciare così spazio ad un ultimo momento di chitarra solistica.
Sono serviti tre anni di fatiche e dolori personali perché i Mastodon tornassero a farsi sentire con un nuovo concept album, e con una performance che ha poco da condividere con quanto sentito in Once More ‘Round The Sun, Emperor Of Sand non tradisce le attese. L’album è un’ottima prova in studio, la quale, pur mantenendo generalmente forme più semplici rispetto all’ultimo concept della discografia (Crack The Skye), riesce ad includere vecchio e nuovo in una formula che potrebbe rivelarsi il primo passo da seguire per il futuro prossimo. Nel frattempo si guarda al presente, perché i Mastodon hanno pubblicato l’album che avremmo voluto sentire da circa otto anni a questa parte, e pertanto c’è solo di che essere felici.

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