DAVID SILVERIA DrumClub Dicembre 2006

Paolo Battigelli 01 dic 2006
I Korn, ovvero un connubio di riff e ritmiche brutali e disturbanti, vocalizzi hip-hop e una mezza dozzina di influenze, dal funk all’easy listening, un mix che ha cambiato la faccia nella musica heavy al giro di boa del 2000, collezionando almeno una dozzina di brani divenuti veri e propri classici, grazie a liriche coraggiose sposate a melodie a dir poco temerarie. E a comandare le danze dietro i tamburi, c’è David Silveria, batterista di rara potenza e dal tocco micidiale.

A distanza di 12 anni dal destabilizzante debutto (Korn, 1994) la band di Bakersfield, pur privata di uno dei suoi pilastri (il chitarrista Brian “Head” Welch folgorato sulla via della fede e convertitosi al cristianesimo militante) rimane leader di un genere e un movimento destinati incidere sempre più profondamente il tessuto musicale. Amati oltremisura dai propri fan, stimati dai colleghi e coccolati dallo show-business, i Korn restano oggi un punto di riferimento anche se, forse, graziati più di rado dalla scintilla del genio. L’ultimo album See You On the Other Side (2005) non ha aggiunto nulla di rilevante al loro già ricco curriculum, ma è la dimostrazione di come classe innata, ...
l'articolo continua  

info intervista

Korn
DAVID SILVERIA
talento sfruttato a dovere e mestiere possano sopperire ad una parziale mancanza di idee.

All’ultimo Gods of Metal del giugno scorso, i Korn hanno dato fondo alle proprie energie sfoderando una grinta ed una padronanza dei propri mezzi musicali davvero encomiabili, con momenti cardine quali il medley di vecchi hit (Shoots and Ladders/Need To/Lies/Make Me Bad/Thoughtless/A.D.I.D.A.S./Twist), la debordante Coming Undone e, ovviamente, la conclusiva Blind, autentica summa del Korn-pensiero, risalente agli albori della loro carriera.

A comandare il tutto dall’alto del suo scranno, quella figura incombente a torso nudo, dal fisico scolpito, i lunghi capelli raccolti sulla nuca e una rabbia per troppo tempo trattenuta. David Silveria, il batterista, il modello che volle farsi musicista, muscoli guizzanti e cervello al servizio del nu-metal.

Certo, Jonathan Davies funge da catalizzatore mentre i numeri di alta scuola chitarristica di James “Munky” Schaffer suscitano ammirazione e il basso di Reginald “Fieldy” Arvizu spinge forte, concupito dall’ala più rap-core del pubblico; ma è sulla pedana posta in alto, dietro una barriera quasi impenetrabile di casse, piatti e gong che si compie il miracolo.

E’ lì, ideale banco di regia, che i compagni di Silveria rivolgono lo sguardo, cercando un gesto di assenso, un’occhiata furtiva, una conferma. Il suono Korn è nelle sue mani possenti, quelle di un batterista completo, tecnicamente dotato e altrettanto prestante nel look, capace di mescolare classe, intuito, vis creativa e quel tocco di teatralità ed esibizionismo che possono trasformare in un idolo anche un modesto mestierante (e questo non è certo il caso di Silveria).

Modello di successo prestato alla causa musicale, David Randall Silveria nasce a S. Leandro (California) nel 1972, ma cresce nell’area di Bakersfield, dove la sua famiglia si trasferisce poco dopo. L’attrazione per la batteria inizia in età scolare e a nove anni è già alle prese con il primo kit, ma l’ innata timidezza gli impediscono di farsi notare.

E’ la madre a convincerlo, accompagnandolo di persona, a presentarsi ad un’audizione della band LAPD (all’inizio acronimo di Love And Peace Due, poi trasformato nel più consono Laughing As People Die) di cui fanno parte già Head, Munky e Fieldy. Dapprima mossi da semplice curiosità (Silveria ha solo tredici anni all’epoca), devono ricredersi non appena impugna le bacchette.

I LAPD si evolvono poi nei Korn, destinati a diventare una delle band più incendiarie, riverite e imitate dai tempi dei Black Sabbath e degli Slayer. La linea di fuoco delle twin guitars (rigorosamente a sette corde, una novità) sparge benzina ma è la ritmica a darle fuoco; e le fiamme che si innalzano dal drumset sono in grado di bruciare le convenzioni passate, sovvertendo molte regole e ridefinendo così un intero genere.

Ma ogni rosa ha le sue spine. Nel 2000 Silveria, a causa di lunghi e stressanti tour, si vede costretto a rimuovere chirurgicamente una costola in più con cui ha convissuto sin dalla nascita e che, sottoposta a continui sforzi, causa grossi problemi ai nervi del braccio sinistro. Resiste fin che può poi, nel corso di uno show a Fargo, Nord Dakota (per la cronaca durante It’s Gonna Go Away, titolo sinistramente profetico), il polso cede di schianto. Lo sostituirà Mike Bordin (ex Faith No More e Ozzy Osbourne Band) per il tempo strettamente necessario.

Qualcuna parla di un ritiro permanente a favore della carriera di modello (è uno dei preferiti di Calvin Klein), ma le illazioni vengono poi smentite dai fatti. Ma i guai non vengono mai soli. Il chitarrista Brian “Head” Welch annuncia di voler lasciare la band per seguire la via della fede cristiana e anche stavolta viene recitato il de profundis, fortunatamente anzitempo. E visto che non c’è due senza tre, pochi giorni dopo l’ultimo Gods Of Metal, il cantante Jonathan Davis viene ricoverato d’urgenza a Londra per una grave infezione del sangue causata probabilmente da un a reazione allergica ad alcuni medicinali.

Le piastrine calano spaventosamente e se Davis avesse continuato ad esibirsi probabilmente sarebbe crollato sul palco, vittima di un’emorragia cerebrale. Disavventura finita bene, fortunatamente. Con Silveria, forse per esorcizzare l’ombra negativa che pareva aleggiare sul gruppo, si parte proprio dalle disgrazie mediche...

Allora David, cominciamo da quella costola in più?
Ci sono nato, ma sino ad allora non mi aveva procurato grossi guai. Il fatto è che io picchio duro, molto duro, e i colpi si trasmettono a tutto il corpo; per di più quel tour era stato sino ad allora impegnativo e stressante: non so giocare di rimessa, io vado all’attacco. Ricordo perfettamente quella sera. Eravamo a Fargo, nel Nord Dakota, nel corso del Sick And Twisted Tour del 2000 e stavamo suonando It’s Gonna Go Away, un titolo profetico. Il polso cedette di colpo così corsi nel backstage per le prime cure; lo bendammo mentre i miei compagni cercavano di dare spiegazioni al pubblico. Poi li raggiunsi, presi il microfono e dissi testualmente: “Ho paura di avere una brutta notizia. Il mio polso è andato a farsi benedire e non posso più suonare.” I presenti iniziarono a rumoreggiare, mostrando chiari segni d’insofferenza. Allora aggiunsi: “Avremmo potuto far salire qualcun altro sul palco per dirvelo, magari un medico, ma abbiamo preferito essere noi stessi ad informarvi. Ci è parso più corretto.” Fu allora che i fischi e i lazzi si trasformarono in applausi e urla d’approvazione. Venni operato e tutto andò bene.

Durante la degenza e il forzato ritiro circolarono voci di un tuo possibile addio alla musica in favore della carriera di modello...
Sì, lo ricordo. Sai, quando le cose vanno male c’è sempre qualcuno disposto a farle andare peggio. E’ vero che nella mia carriera professionale ho fatto anche il modello e con discreto successo (ride), ma posso garantirti che non ho mai preso in considerazione l’idea di lasciare i Korn. Certo, nel 2000 ho posato per la campagna Dirty Denim Jeans di Calvin Klein, ma non sono stato l’unico (Jay Gordon degli Orgy, per esempio) e poi non ho trascurato per questo gli impegni con la band (dall'episodio ne nacque una violente querelle con gli Slipknot, che non consideravano il prestito al mondo della moda un atto molto “metal”. nda).

Trascorsi da modello ironicamente ripresi nel video di Twisted Transistor...
Al momento, venni criticato per essere apparso su quei manifesti. Poi però fu chiaro che si trattava di una sciocchezza e così tutti nel gruppo ci ridemmo sopra, inserendo in quel video una scena che parodiava la “scappatella” modaiola.

Prima di passare alla musica suonata, le condizioni di Jonathan Davies?
Sta bene, ma ha corso un brutto rischio. Accusava stanchezza e apatia, così decise di farsi visitare. Gli fecero un prelievo del sangue, e i risultati furono pessimi. Fu ricoverato e sottoposto immediatamente alle cure del caso. Ora fortunatamente va meglio.

Ho letto che per la prima volta in un’intervista ha parlato di politica e di Dio. Non farà mica come Head?
Spero di no. Certo, però, che l’ha scampata bella, e forse è vero che il buon Dio ha volto lo sguardo su di lui.

Parliamo di See You On the Other Side, il primo album senza Head. Come è stato accolto dal pubblico?
L’album è stato accolto molto positivamente in tutto il mondo e questo ci ha fatto piacere. Abbiamo ricevuto un ottimo feedback anche dai fan più fedeli, quelli senza peli sulla lingua, pronti ad esprimere giudizi anche negativi, se necessario. Il mio approccio musicale è stato quello di sempre: una corsa col piede pigiato sull’acceleratore, dal primo all’ultimo chilometro. Lo abbiamo inciso ad Hollywood ma l’ambiente non ci ha certo ammorbidito. Personalmente ho usato più o meno lo stesso set, sia per il lavoro di studio che per il successivo live. Trovo più facile e rassicurante avere lo stesso motore sotto il sedere quando corro. Inoltre, raramente cambio setup quando sono in studio perché, se c’è una parte del brano perfezionabile, ci riuscirò senza dubbio meglio se uso il solito set. Una questione di confidenza, un sentirsi a proprio agio.

La mancanza di Head si è fatta sentire sull’economia compositiva di See You On the Other Side?
Innanzitutto, devo dire che non è stata una notizia improvvisa, non ci ha colto di sorpresa. Era già qualche tempo che appariva come a disagio, con problemi personali da risolvere. Eravamo preparati e quando accadde pensammo: “Ci siamo. Ora dobbiamo solo occuparci del nuovo album”. Ma vorrei chiarire che non fu affatto una liberazione, una boccata d’aria fresca. Il fatto che se ne fosse andato ci lasciò l’amaro in bocca, fu un momento molto triste per tutti. Siamo felici per lui perché ha trovato la sua strada, ma allora non lo eravamo affatto; anzi, ne fummo davvero scossi. Poi, però, ci siamo subito rimboccati le maniche. Tutto sommato, non gli era successa nessuna disgrazia! Aveva preso la sua strada e se lui poteva fare a meno di noi, noi potevamo fare benissimo a meno di lui. Per questo See You On The Other Side è l’album più importante della nostra carriera, è la dimostrazione che i Korn sopravvivono lo stesso e il riscontro live dei brani è stato veramente ottimo. Munky si è sobbarcato un lavoro grandissimo ma lui è un chitarrista eccezionale che potrebbero reggere un bisonte sulle spalle. Si può dire che in studio abbiamo diviso al 25% a testa quello che era la parte di Head. Dal vivo è diverso, abbiamo bisogno di un secondo chitarrista e di altri musicisti per essere veramente completi e la collaborazione di Rob Patterson è veramente essenziale. Ma il nucleo dei Korn resterà questo, per ora.

Rob Patterson, quindi, è destinato a rimanere per sempre un semplice sessionman?
No, non ho detto questo. Diciamo che non si può diventare un membro dei Korn da un girono all’altro. Lo stiamo inserendo poco alla volta, cercando di farlo entrare in sintonia con noi – cosa assolutamente non facile – e vedere se ha tutte le qualità necessarie per essere uno di noi. Tecnicamente è bravissimo, su questo non si discute. Ma la parte compositiva è qualcosa che va oltre le semplici qualità tecniche. Ci vuole l’anima-Korn che, per adesso, possediamo solo noi quattro al 100%.

Parlando della strumentazione, sei sempre un fedelissimo Tama?
Naturalmente. Uso una Tama Starclassic Signature model con rifiniture cromate, piatti Paiste anch’essi Signature e bacchette Vater modello David Silveria DSK. Sono molti anni che ho firmato un endorsement con la Tama e ne sono felice.

Il vostro debutto discografico ha cambiato la faccia della scena metal internazionale. Cosa ricordi di quel disco?
L’intero album fu registrato in uno studio di Malibù, in California e tutti noi eravamo letteralmente euforici quando lo abbiamo ascoltato per la prima volta. Eravamo al settimo cielo, ma ricordo distintamente un’altra cosa: capimmo subito di avere per le mani qualcosa di assolutamente nuovo ed unico. Qualcosa diverso da tutto il resto. I brani prendevano forma mentre venivano provati nel nostro studio, non c’era nulla di preparato o di pianificato, ma solo totale improvvisazione. Fu molto eccitante assistere all’evolversi dei pezzi.

Credevate ad un simile successo, quando Korn arrivò nei negozi? E che effetto fa essere ancora sulla cresta dell’onda mentre altre band, vostre contemporanee, sono finite nel dimenticatoio?
Certo che ci credevamo! Ma non a questi livelli! Il vero momento di panico arrivò quando ci fu da mettere in cantiere il secondo album. Era una sfida che, però, andò bene. Life is Peachy arrivò nei top five guadagnandosi una nomination ai Grammy categoria Best Metal Performance con il brano No Place to Hide e a quel punto acquistammo piena fiducia nei nostri mezzi. Da allora, abbiamo sempre seguito una regola: non tentare mai di fare un disco sulle orme del precedente, puntando su idee fresche e sonorità nuove. Un modo di lavorare impegnativo, ma che alla fine paga. E qui rispondo alla seconda domanda: credo che la ragione del perdurare del nostro successo sia la qualità dei dischi. Poi il rapporto con i fan – con i quali manteniamo legami strettissimi – e il fatto che emittenti musicali come MTV passano praticamente da sempre i nostri video. Una volta conquistato il pubblico, non l’abbiamo più lasciato andare. A volte mi fa una certa impressione osservare, magari durante una signing session, gente di 25/30 anni accanto a giovani e giovanissimi. Segno che il pubblico è cresciuto con noi, album dopo album. Credo non esista miglior riscontro per una band.

Parlando di batteristi, quali sono state le tue maggiori influenze?
Sinceramente, non ho mai seguito un batterista in particolare, preferendo il suono di una band all’apporto del singolo. Però, tra quelli che ammiro maggiormente, metto Neil Peart, John Bonham e Tommy Lee, ognuno con caratteristiche ben definite. Il massimo sarebbe un mix dei tre! Non oso pensare cosa verrebbe fuori... Probabilmente un mostro! Tra le band attuali mi piacciono i Muse e i Killers, con i loro batteristi Dominic Howard e Ronnie Vannucci. Lo so che hanno poco o nulla a che fare con noi, ma per quel tipo di musica sono i migliori. Personalmente, ascolto un po’ di tutto, passando da Robbie Williams ai Pantera, dai Koos ai Jet. Mi piace allargare il mio spettro sonoro, c’è una musica adatta ad ogni stato d’animo, ad ogni momento della giornata. Di certo non ascolto solo metal.

Quando hai deciso di prendere sul serio il mestiere di musicista e perché proprio la batteria?
Diciamo che è stata lei a scegliere me e non viceversa. Ero un bambino iperattivo e scaricavo la mia energia picchiando su qualsiasi cosa mi capitava a tiro. Naturalmente, mia madre decise di convogliare tale potenziale distruttivo verso qualcosa di non “deperibile”. Un drumkit era l’ideale. Ho deciso di fare il musicista a tempo pieno, però, solo dopo essere entrato a far parte dei Korn. Prima era solo un passatempo. Pensa che, dopo lo scioglimento dei LAPD, per qualche tempo ho lavorato preso un Piazza Hut...

All’inizio eravate tu, Munky, Head e Fieldy. Come venne reclutato Jonathan?
Allora era membro di una band chiamata Sexart. Una sera, assistemmo ad un loro show, ci piacque, e gli chiedemmo se voleva unirsi a noi. All’inizio fu riluttante, tentennò, ma poi accettò. Era la tessera che mancava per completare il mosaico. Fu allora che adottammo il nome Korn.

Curiosità: ti vengono spesso affibbiati soprannomi tra cui spiccano il rubacuori e il timido. Concordi?
In effetti, sono sempre stato un timido, sin da piccolo. Se non fosse stato per mia madre, non sarei mai andato all’appuntamento con i LAPD per un provino, ergo oggi non sarei qui. Rubacuori? Beh, non sta a me dirlo...

Oltre ai Korn, hai suonato con gli Infectious Grooves e i Suicidal Tendencies. Novità al riguardo?
Non per il momento. Ma non mi dispiacerebbe dedicarmi, part-time ovviamente, ad un progetto collaterale, ma non so se ne avrò la possibilità. Gli Infectious Grooves soddisferebbero in pieno la mia anima più funky, più legata agli anni settanta ma, per quanto ne so, ora sono fermi e non credo si rimetteranno in pista tanto presto. E’ un peccato perché il funky contribuisce molto a sdrammatizzare le atmosfere cupe del metal e un po’ d’ironia sul palco non guasterebbe.

Il ricordo più bello di questi anni con i Korn e il brano che ami di più?
Direi l’esibizione a Woodstock nel 1999 davanti a quasi 300mila persone. Un tuffo al cuore. Riguardo al brano amo tutto il repertorio dei Korn, ma quello che amo più suonare dal vivo è Blind: il pubblico va puntualmente fuori di testa e io mi esalto senza freni.

David Silveria drumset


Batteria
Tama Starclassic customizzata
22”x18” Bass Drum
14”x6” Signature snare drum
10”x5” e 12”x6” Tom
15”x15” e 16”x16” Floor Toms
20”x16” Gong bass

Piatti
Paiste Chrome Signature Series
15” Signature heavy hi-hats
8” Signature spalsh
18” Signature Heavy China
18” Signature Power Crash
10” Signature Ssplash
20” Signature Power Ride
15” Signature Sound Edge hi-hats
20” Signature Power Crash
13” Exotic /Percussion Mega Cup chime

Bacchette
Vater David Silveria DSK Signature

DISCOGRAFIA KORN


Korn (1994)
Life Is Peachy (1996)
Follow The Leader (1998)
Issues (1999)
Untouchables (2002)
Take A Look In The Mirror (2003)
Greatest Hits Vol. 1 (2004)
See You On The Other Side (2005)
Live & Rare (2006)

© 2016 Il Volo Srl Editore - All rights reserved - Reg. Trib. n. 115 del 22.02.1988 - P.Iva 01780160154