Il 3 e il 27 settembre 2022 il mondo del rock si riunirà per due emozionanti concerti, rispettivamente a Londra e Los Angeles, per ricordare e celebrare un suo grande eroe che così tanta passione ed energia ha profuso in oltre venticinque anni di carriera: l’irrefrenabile Taylor Hawkins, il marchio di fabbrica dei Foo Fighters di Dave Grohl.
C’è un’afa appiccicosa che t’incolla i vestiti addosso, il 22 marzo 2022 ad Asuncion, capitale del Paraguay, figlia della burrasca che il giorno prima ha reso impraticabili i campi dello storico Asuncionico, annullando il Festival che doveva vedere headliner i Foo Fighters, di nuovo in pista ed alla grandissima come nessuno, dopo lo iato drammatico imposto dalla pandemia.
Taylor Hawkins s’aggira magro come un’acciuga nella hall dello Sheraton, quando gli s’infrange nei timpani lo schianto di una batteria che legna la sua Pretender. È Emma Sofia Peralta, 9 anni, di cui due passati a mulinare bacchette piuttosto che a pettinare bambole, e che cerca dall’altra parte di una barricata adiacente all’hotel di attirare l’attenzione di Taylor e del suo amico-fratello Dave Grohl, oltre che sfogare l’incazzatura di non poter vedere i suoi eroi sul palco del festival cancellato dalla burrasca del giorno
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prima. Taylor ci mette un amen a fiondarsi fuori e cercare, fra la folla impazzita, chi diavolo stia menando così. Abbracciando quello scricciolo dagli occhioni neri e la pelle oliva per un selfie con il suo sorriso da Bee Gees ad illuminarla, la rassicura: “Torneremo l’anno prossimo!” Tre giorni dopo invece, al Four Seasons Hotel di Bogotà, poco dopo le 19:00 Taylor ha un malore, chiama i soccorsi ma è inutile. Taylor se n’è andato. Incredibile. Gli esami tossicologici delle urine riporteranno nel suo corpo un mix di tanti, troppi antidepressivi e antidolorifici; l’autopsia preliminare rivela un cuore diventato di 600 grammi.
Già, ma che Taylor avesse un cuore grande così lo sapeva chiunque lo avesse mai incrociato, anche solo per un istante, da Paul McCartney (che aveva introdotto i Foos nella Rock And Roll Hall Of Fame nell’ottobre 2021) in poi. Lo aveva intuito, fra gli altri, anche un commesso del Guitar Center di Northridge, accanto alla sala prove dei Foo Fighters, dove Grohl e Hawkins, superstar milionarie, andavano a far i cazzoni come se fossero ancora due ventenni spiantati dei Novanta, notando che Taylor si caricava di fatture settimanali di migliaia di dollari, eppure usciva sempre dal negozio con poca roba per sé. Poi il titolare gli aveva spiegato la faccenda: “Appena vede un bambino in negozio non resiste a regalargli qualcosa…” Ecco chi era Taylor.
Uno che, messa su l’ennesima follia collaterale, i settantiani Coattail Riders, di cui era anche cantante e con i quali girava con uno spassosissimo Winnebago per locali minuscoli, ringraziava quel manipolo d’impavidi che, pur di vederli suonare, avevano sfidato una tempesta di neve in Colorado, portandoli al sushi-bar lì accanto a gozzovigliare allegramente. Uno che nel retro della sua villa con piscina a Los Angeles aveva allestito una casetta per i suoi innumerevoli amici, trasformata poi in studio e mini club, il Sonic Grove; la sua tana stipata dal pavimento al soffitto di migliaia di mirabilie rock da collezione, come neanche nei sogni di un adolescente, dove si divertiva a suonare per ore i suoi idoli d’infanzia: Roger Taylor, Neil Peart, Phil Collins e il suo mito Stewart Copeland, divenuto poi il suo compagno di tante chilometriche jam e telefonate, tutte all’insegna del cazzeggio più spassoso. Taylor era così, un cinquantenne (nel corpo) che andava per gli otto (nell’anima). Uno che era rimasto un fanboy del rock dei Seventies, anche se faceva parte di una osannata mega rock band mondiale da 25 milioni di dischi venduti e 15 Grammy Awards vinti. Uno che, per entrare nei Foos, aveva mollato su due piedi la popstar Alanis Morrisette per proporsi al suo gemello Dave Grohl alla ricerca di un batterista per la sua creatura, i Foo Fighters, di cui era frontman, quando ancora però i palazzetti se li sognavano. Una scelta folle. Ma vuoi mettere che botta suonare del rock sanguigno con memorabili ganci pop insieme al tuo migliore amico? Perché Taylor aveva un’esuberanza indomabile e viveva insaziabilmente di musica. Uno che quando entrava in una stanza l’accecava con la sua aura di predestinato, di rocker selvaggio, secco e trasandato come un randagio, biondissimo ed abbronzato come un surfista, perennemente con i bermuda attaccati a metà del sedere, con l’aquila ribelle tatuata sul deltoide sinistro in bella mostra e quel sorriso a trentadue denti ultra-bianco che non negava mai a nessuno e che sfoderava perennemente mentre suonava… e come diavolo suonava, Taylor Hawkins! Una frenesia ed una fisicità dirompenti che nei live tracimavano trascinando al delirio platee immense, duettando istrionico con quell’altro tsunami di Grohl come fossero a cazzeggiare in un garage davanti a qualche scoppiato come loro. Taylor era il 50% dello spettacolo.
Iperattivo ed atletico, volutamente grezzo e naturalmente carismatico, non un virtuoso ma una forza della natura che spingeva senza fronzoli, spargendo gioia ed energia ad ogni frustata, sempre funzionale al pezzo suonato e alla band. Non un innovatore, bensì un innamorato dello strumento che ha ricollocato, con modestia e passione, la batteria degli anni Settanta nel rock radiofonico d’inizio millennio. La dinamite che esplodeva sul palco con quelle cartelle scaricate sulla sua Gretsch stilosissima in finitura in legno naturale come l’amato Don Henley, con le pelli delle casse omaggianti i volti dei suoi eroi ed il suo fidato kit di piatti Zildjian; sudato come neanche Springsteen dopo una sauna, e mai col grugno feroce o compiaciuto ma felice e sorridente come un monello a cui gli han detto che può saltare fino a sfondare le doghe del letto dei genitori. E, soprattutto, amatissimo, come nessun batterista rock negli ultimi vent’anni.
Perché era uno umile e mai soddisfatto di sé stesso, che aveva lavorato durissimo per difendere il suo sogno e non aveva mai dimenticato da dove venisse, che ripeteva sempre che senza Grohl sarebbe finito a fare il porta-pizza, ma che aveva convissuto con l’ansia da prestazione di suonare la batteria nella band del più iconico batterista degli ultimi trent’anni (lo stesso Grohl) e di essere sempre considerato il secondo miglior batterista della band. Uno che, invece, non riusciva a capire che senza Taylor Hawkins i Foo Fighters avrebbero volato a metà della velocità e alla metà dell’altitudine. Là fuori ce ne sono quanti ne vuoi, migliori di lui. Ma l’attitudine che serviva per farli esplodere ce l’aveva solo Taylor. Infatti, Grohl non finiva mai di ricordarglielo, pubblicamente: “Sei tu il miglior batterista per questa band. Io mi prenderei una pallottola per te…”
Già, Dave. Il suo boss. Ma anche il suo fratellone maggiore. Travolto dal suo contagioso entusiasmo, dalla sua disarmante umanità fin da quando s’incrociano nel 1995 condividendo il palco: lui, ventenne in braghette e canottiera, con Sass Jordan e Dave Grohl, già leggenda del rock, con i suoi esordienti Foos. Due fan sfegatati che allora passano ore a discutere di Bonham e Cobham scolandosi delle Bud e ammazzandosi dalle risate. Due musicisti gemelli che parlano quella lingua unica ed incomprensibile ai profani che è quella dei batteristi. Due irresistibili goliardi che non si sono mai presi sul serio e mai hanno dimenticato che è solo rock & roll, per quanto ambiziosi e stakanovisti come nessuno. Taylor si è sempre sentito come un bambino al quale avevano dato le chiavi di Disneyworld dicendogli: “Vai e spassatela!” Vuoi mettere suonare e cantare con McCartney, Doors, Beach Boys, Led Zeppelin, Queen, Elton John? Eh, sì. Taylor era un musicista a tutto tondo, con una voce da far crepare d’invidia tante rockstar: da guardare a bocca aperta come nel 2006, davanti alla marea umana del tempio di Wembley, egli canta addirittura Rock N Roll, insieme ai Martelli degli Dei – Jimmy Page e John Paul Jones – in tiro tellurico e con Grohl impazzito dietro il drumkit. Con quella voce miracolosamente sabbiosa e aspra, strappata fuori da un’anima infantile e appassionata, ma popolata di fantasmi dai quali scappare suonando fortissimo su un palco.
UNA LETTERA PER TAYLOR Chissà, Taylor. Forse quei fantasmi erano quelli di mamma Elizabeth, così amorevole e tenera da compensare papà Terry, freddo e duro come il marmo, ma tormentata e fragile nei suoi crolli improvvisi ai quali sopperivano Heather e Jason, i tuoi fratelli maggiori. Comunque, un’infanzia tutto sommato serena, trascorsa a Laguna Beach dove tu e la tua famiglia vi eravate trasferiti quando avevi quattro anni, da Fort Worth (Texas) dove tu, Oliver Taylor Hawkins eri nato il 17 febbraio del 1972. Eri sul sedile posteriore dell’auto di Elizabeth quando ascoltavi dall’autoradio i grandiosi gruppi inglesi dei Settanta, ed eri con lei al concerto dei Queen quando tu avevi dieci anni, e lei aveva annuito nel momento in cui avevi sparato lì che anche tu un giorno avresti suonato davanti ad uno stadio così gremito. Era lei a spingerti a prendere lezioni di pianoforte, ad incoraggiarti alla chitarra e ad assecondarti quando avevi scelto la batteria per emulare Roger Taylor dei Queen. Il surf, la mountain bike e la batteria da autodidatta, suonata sopra Down Explosion di Captain Beyond per iniziare, poi sopra News Of The World dei Queen, XYY dei Rush e Zenyatta Mondatta dei Police. Suonata come la tua vita, sempre più forte, sempre più veloce. Così rumorosa che ti avevano cacciato dalla jazz band della scuola, Taylor.
Figlio dello spirito libero degli anni Settanta, dell’energia del post punk californiano, dell’essenzialità del less-is-more in un’epoca di funamboli, della sporcizia dell’analogico che rendeva le imperfezioni dei batteristi le loro impronte digitali, uniche, prima che Pro Tools annegasse tutti nella stessa piatta perfezione. Tu, invece, eri il fan che ruba qualcosa ai suoi idoli per creare il suo stile: la musicalità e la configurazione di Roger Taylor, l’accento in avanti di Copeland, la tribalità di Perkins, i paradiddle di Peart. Il tutto mescolato nel tuo primo gruppo, i Sylvia, cloni degli amati Jane’s Addiction, messi su quando dopo il diploma ti eri trasferito a Venice, mantenendoti come commesso al Guitar Center. Fino a quella selvaggia audizione a fine 1994, trascinato dal chitarrista Stevie Salas, sguinzagliato a cercare un batterista per la cazzutissima Sass Jordan, dopo che ti aveva notato ribaltare il Lingerie Club di Hollywood. Poi, una serata di supporto a Steve Perry e il suo manager che ti vuole a tutti i costi per accompagnare in tour una sua tostissima ventenne, Alanis Morissette. I club che diventano presto stadi e il pop che diventa rock grazie anche alle tue sassate sul rullante e al tuo groove funkastico, mentre il video di You Oughtta Know passa di continuo la tua impazzita chioma color oro. Infine, Dave Grohl. Un altro che quando accende il cuore sposta le montagne e unisce i continenti ma che, all’epoca, in quel cuore c’èra ancora un buco grosso quanto quel colpo di fucile che gli aveva strappato via il suo fragile amico Kurt [Kobain] oltre a non essere convinto di come il pur notevolissimo William Goldsmith suonasse la “sua” musica nella “sua” band, messa su per non rimanere fermo alla rivoluzione ed alla tragedia dei Nirvana. Chissà, Taylor. Anche tu biondo e selvaggio, anche tu esuberante fuori e incasinato dentro, come Kurt.
La Morissette che allora capisce quella chimica e ti dice: “Che farai quando Grohl ti chiederà di entrare nella sua band?” In realtà, lo fai tu, Taylor. Dave non avrebbe mai avuto il coraggio: diamine, chi mollerebbe i tour in giro per il mondo viaggiando su un jet privato per andare a suonare nei locali per camionisti del Midwest su di un Dodge? Ma sei stanco di essere una pistola a noleggio delle popstar e desideroso di provare l’ebbrezza di fare parte di una rock band. E non sei entrato semplicemente nella band di Grohl ma nel suo cuore. Ma quante paranoie all’inizio… Tu eri quello dei live selvaggi, chi diavolo era mai entrato in uno studio di registrazione? E ti viene da pensare che diavolo ci stai a fare seduto dietro la batteria quando dall’altra parte del vetro c’è il batterista di Nevermind che potrebbe farlo meglio di te? “Amico, io non sono in grado di suonare come vuoi tu…” E lì il fratello maggiore che ti sprona: “Tu suonerai per questo disco…”
E da allora siete cresciuti insieme. Il compromesso di There’s Nothing Left To Lose del 1999, registrando la batteria a metà insieme a Dave e poi, tre anni dopo, il botto clamoroso con One By One, interamente suonato da te, così orgoglioso di essere diventato il batterista del batterista degli anni Novanta. Quel disco segna il decollo dei Foo Fighters da progetto a band grazie a te, ormai marchio di fabbrica di quel sound fresco ed adrenalinico, gli Husker Du del 2000. Perché eri tu che mettevi le ali a quei ritornelli irresistibili, che aprivi il gas con la tua pacca sciolta sul rullante (spesso allentando la cordiera), con le tue entrate adrenaliniche, con i tuoi fill così ficcanti e dinamici sciorinati sui concert tom o i rototom alla Phil Collins che solo tu potevi riportare in auge. Senza contare il supporto poderoso, soprattutto nei live, che la tua voce da Woodstock garantiva a Dave, impegnato a microfono e chitarra.
Ma quel senso di inadeguatezza ancora ti annodava la gola e Matt Cameron e Chad Smith impazzivano nel ficcarti n testa che eri un grande batterista. Uno che ha spinto milioni di giovani nel mondo ad impugnare le bacchette e divertirsi sui tuoi pezzi entusiasmanti. Semplici, non facili.
Eri certamente diverso da Grohl, mica inferiore. Più tecnico, più ecclettico, meno potente ma più elastico, con meno tiro e meno caos ma più pulito e con gusto. Lui figlio dell’heavy metal, dei Motorhead e dei Beatles. Tu dei drum solo dell’hard rock dei Seventies. Quindi perfetto per esaltare quelle hit sfornate a raffica non per rivoluzionare il rock ma per farlo sopravvivere agli anni 2000, per scalare le classifiche e far saltare gli stadi di tutto il mondo, come hai sempre sognato.
Tu e Grohl eravate l’immagine della band. Perché complici. Lo si vedeva in ogni vostra intervista, nei vostri video demenziali, nei live infiniti dove a un certo punto vi scambiavate i ruoli, Dave che tornava a randellare la batteria mentre tu tenevi il palco divertito e strampalato con Somebody To Love o In The Flesh. Come in studio: due batteristi incollati ad una chitarra. E gli altri a ruota.
Ma c’è stato anche un momento in cui tutto è sembrato crollare. L’overdose di eroina a Londra nel 2001, due settimane di coma, uno schiaffo sulla faccia che ti ha ricordato che tutto può finire in un secondo, che la batteria ha bisogno di disciplina e fisico, perché poi sul palco devi farti sentire ogni sera per tre ore fra tre chitarre attaccate a un muro di Marshall e un uragano al microfono. Quindi hai messo ordine ai tuoi casini, anche per Dave.
Quando la pandemia ha rinchiuso in casa tutti quanti, un anno e mezzo di clausura con Alison e i vostri tre figli era piaciuto da matti, dopo 28 anni a zonzo on the road. Dave, invece, ha morso il freno e progettava di ripartire a schiodo appena possibile: un nuovo attesissimo album dei Foos (Medicine At Midnight), un colossale tour mondiale e addirittura un film horror (Studio 666). Quindi il tuo nervosismo, le tue ansie confidate pubblicamente prima del rientro a giugno dell’anno scorso, mentre Cameron [Matt] ti malediceva quando gli confidavi che tornare ai live era il tuo viaggio all’inferno.
Quindi un personal trainer, dieta, pesi ed elettroliti a manetta. Ed anche l’idea di abbassare rullante e piatti per faticare meno. Tutto per cercare di mantenere l’intensità di un ventenne nel corpo di un cinquantenne, come tutti pretendono. Tu per primo. Poi i tour che si allungano di date, perché il mondo ha una fame fottuta dei Foos e lo stesso Dave vuole che loro siano i primi a tornare ovunque: al Madison Square Garden, in Alaska, ad Abu Dhabi, in Australia… A dicembre 2021, qualcuno dei Foos collassa in aereo, ci vogliono le flebo per tirarlo su. Il management non precisa chi, Chad Smith assicura che fosse Taylor. Non ne aveva più per tenere quei ritmi folli, quella pressione gigantesca secondo lo stesso Smith. Voleva scendere da quella giostra, secondo la Jordan. Voleva un chiarimento con Dave per rallentare, secondo Cameron. Tutte panzane, secondo il management della band. In tutti i casi, le date aumentano. Le 40 del 2021 (mentre i Pearl Jam ne hanno inchiodate soltanto 4) diventano 60 per il 2022. C’è un piccolo spazio temporale per festeggiare i 50 anni a casa, una dozzina di intimi, gli amici batteristi di sempre, poi di nuovo in giro, in Sudamerica. Dove hai fatto in tempo a regalare la solita gioia, la solita energia a migliaia di fan impazziti. Ed un sogno alla piccola Emma. Ciao Taylor.
……………………………………………………………………………………………….. Nel 1999 le cose non vanno bene per i Foo Fighters: Axl Rose pensa a Taylor Hawkins per rimettere in piedi i GNR; Hawkins chiede consiglio a Roger Taylor dei Queen che lo convince a dire di no: “Fra te e Dave c’è qualcosa che non troverai da nessuna parte…”
Il suo set era classic rock e a quanto pare può essere riassunto così: 6/8 i concert toms (senza pelli), Tim da 13, Floor da 16 e 18, cassa da 24 (in alternativa la 22), Gretsch Custom Series.
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TAYLOR HAWKINS – citazioni
“A volte, durante certe jam siamo come gli Who, come Keith Moon e Pete Townshend. Facciamo delle battaglie epiche tra strumenti, anche se lui [Dave] suona la chitarra come se fosse una batteria, e gli altri ci guardano come a dire: ok, vediamo dove vanno a parare!”
“Quando un disco è pronto e partiamo per suonarlo dal vivo, portiamo sul palco il sudore, l’anima, il sangue, i dolori al collo e alla schiena, la tendinite. Tutto a chi è venuto a vederci…”
“Dave è figlio di John Bonham, io sono figlio di Stewart Copeland. È una semplificazione. Diciamo che io spingo di più, non che Dave sia molle, ma lui sta indietro rispetto al beat […] Il fatto che siamo entrambi batteristi è una grossa fetta della chimica della band. In studio e sul palco io e Dave comunichiamo come batteristi...”
“I contorni grezzi di ogni musicista sono ciò che conferisce loro personalità. E negli anni Settanta i batteristi avevano una propria personalità...”
“I miei drum solo preferiti? YYZ dei Rush, Keep Yourself Alive dei Queen e Dance On A Volcano dei Genesis!”
“Colpisco il rullante esattamente al centro ed ottengo parecchio rimshot. Inclino il rullante verso il kit. Non mi piace il rullante basso, siedo ad un’altezza media, e credo di ottenere in tal modo l’effetto frusta […] Se c’è qualcosa che vorrei affinare è il mio senso del tempo. Suonare lento è molto più difficile che suonare veloce. Farlo bene e farlo sentire bene, quella è la sfida. Ecco perché Jeff Porcaro, Alan White, Ringo Starr e Charlie Watts erano batteristi così fantastici…”
“I giudizi dall’esterno? Pazienza. Ma sono benedetto e fortunato. Sono in questa enorme rock band. Faccio più soldi di quelli che il mio mestiere mi farebbe fare. E sono in una band col mio miglior amico. Mica male!”
Didascalia foto Gretsch C:
Taylor Hawkins con una Gretsch USA Custom in finitura Bright Pink – Concert Tom 5”x6” e 6x8” – Rack Tom 9”x13” – Floor Tom 16”x16” e 16”x18” Floor Tom – Bass Drum 18”x24”– Bell Brass Snare Drum 6.5”x14”