TERRY BOZZIO An Evening Of Solo Drum Music

Steve Rosen 11 set 2016
Noto per essere stato il batterista alla corte di Frank Zappa, aver suonato con Jeff Beck e aver dato vita ai Missing Persons nei primi anni Ottanta, Terry Bozzio ha sempre amato le sfide. Nulla però lo appaga quanto sedersi dietro i tamburi e portare in giro il suo progetto che ha titolato An Evening Of Solo Drum Music...

Il suo straordinario talento, Terry Bozzio lo mette in mostra
già nel 1975, con le partiture impossibili delle Black Page di Frank Zappa. Nei primi Ottanta mette in piedi i Missing Persons, formazione con sua moglie Dale e Warren Cuccurullo con cui esplora i meandri del rock più alternativo.

In grado di passare con nonchalance dall'hardcore, al bebop, Terry Bozzio suona nel tempo accanto a svariati musicisti, tra cui Woody Shaw, Brecker Brothers e UK. Senza dimenticare Jeff Beck, nel cui album Guitar Shop del 1989 lascia la sua impronta indelebile.

Ma non basta. Bozzio, si sa, ama le sfide e immergersi negli stili e mood più diversi: in ogni caso, nulla lo appaga quanto salire sul palco, sedersi dietro il suo (enorme) drumkit e suonare la sua musica. Da tempo, infatti, il ...
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info intervista

TERRY BOZZIO
celebre drummer originario di San Francisco (nato il 27 dicembre 1950) è impegnato a portare in giro per il mondo il suo Terry Bozzio: An Evening of Solo Drum Music.
“Ho composto musica e suonato con le orchestre ed è molto difficile...” - ha spiegato Bozzio - “mi sono anche esibito con quartetti d’archi: una sfida impegnativa e al contempo molto gratificante. Suonare con Tony Levin e improvvisare con Allan Holdsworth e Pat Mastelotto, è stato semplicemente fantastico, così come lavorare al fianco dell’Out Trio ed Alex Machacek, il quale ha scritto musica complessa, straordinaria e fantastica da suonare. Tuttavia, la cosa che amo in assoluto, è sedermi dietro la mia batteria e comporre musica...”

Terry Bozzio: An Evening of Solo Drum Music, festeggia i tuoi 50 anni dedicati al drumming. Ti sembra vero che sia passato così tanto tempo?
La vita è la vita e la tua è una domanda filosofica... io cerco di viverla giorno per giorno. Certo, non potevo immaginare di poter parlare di batteria 50 anni dopo... tuttavia, mio padre era un armonicista ed era bravo a coinvolgere le persone, me compreso.

È stato allora che hai iniziato a prendere lezioni di batteria?
Avevo preso alcune lezioni di chitarra, mentre mio padre aveva tentato di insegnarmi a suonare l’armonica. Ma, per un ragazzino iperattivo come ero io, non c’era verso di farmela piacere. Di contro, ero affascinato dalla batteria e mi piaceva fingere di avere un drumkit. Ascoltavo sempre i dischi di Tito Puente ed ero affascinato dalle sonorità latine, dunque mi mettevo a colpire tavoli di tre dimensioni diverse per simulare alcuni suoni.. Era come se avessi a disposizione tre cajones: avevo avuto una bella intuizione! [ride]

La batteria, dicevi, è sempre stata dentro di te...
Sì, e da quel momento in poi, è diventata sempre più radicata in me. E' proprio vero, i ragazzini hanno sempre tante passioni ma quelle che resistono nel tempo, sono quelle che hanno proprio nel sangue. Più tardi presi ad ascoltare i Beach Boys ed acquistai dei bonghi perché mi piaceva suonare sulla loro musica e cose simili.

Nel 1964 avevi visto i Beatles all’Ed Sullivan Show?
Quando vidi Ringo e i Beatles, implorai mio padre di mandarmi a lezione di batteria: era il 15 luglio del 1964! [La prima apparizione dei Beatles all’Ed Sullivan Show, fu il 9 febbraio di quell'anno]. Mi comperò una batteria e mi mandò a lezione. Ricordo ancora che per esercitarmi avevo due bacchette, un pad, un block notes e un metodo didattico... che poteva essere di Haskell Harr, non ricordo bene. Ho avuto ottimi insegnanti e, con Todd Fletcher - il mio primo insegnante in assoluto - ebbi l’occasione di esibirmi, molto più tardi, al College of Marin. Dovevamo esibirci in un concerto estivo e non c’erano abbastanza percussionisti, così fu ingaggiato lui... Per me fu una bellissima esperienza rivederlo in quelle circostanze. Era un professionista e non aveva paura a confrontarsi con nuove sfide: per me era stato fantastico vederlo!

Sei cresciuto a San Francisco: ascoltavi dunque tutte le formazioni della cosiddetta Summer of Love, come Jefferson Airplane e Quicksilver Messenger Service?
Puoi dirlo forte, amico! Vivevano tutti a Marin County: i Big Brother & Holding Company, Jefferson Airplane, Country Joe & The Fish, Van Morrison... Ricordo un aneddoto di quel periodo: un mio amico, che poi fu il mio primo cantante, stava facendo l'autostop, quando si fermò una di quelle favolose macchine anni Sessanta... era Van Morrison con una donna bellissima al suo fianco. Per tutto il viaggio, continuò a chiedersi cosa fosse quello strano oggetto sistemato sul cruscotto e, quando arrivarono a destinazione, il mio amico ringraziò e, scendendo dalla macchina, capì cosa fosse quel marchingegno... un piccolo frigobar! Rimase basito da quanta tecnologia ci fosse su quella automobile. Oggi probabilmente sorridiamo ma per quegli anni era una cosa straordinaria.

Hai visto qualche concerto di quelle band?
Sì. Ma potevi anche vederli suonare in strada per pochissimi dollari. Io, addirittura, riuscivo a sentirli da casa mia, a Marin County. Le band si esibivano il venerdì e il sabato sera al Fairfax Pavilion e io ci andavo sempre: ricordi i Blue Cheer? Prima di farsi chiamare così, si esibivano con il nome di Oxford Circle, assieme ad altre band, come appunto i Country Joe & The Fish, Big Brother & Holding Company e i Quicksilver Messenger Service. Eravamo tutti fortemente influenzati da quel gigantesco movimento culturale.

Osservavi attentamente il drumming di quei batteristi?
Li ammiravo, pur se non ero affascinato dalla tecnica ma dal playing e dal suono in generale. In quel periodo avevo sei mesi di lezioni sulle spalle, avevo preso molta più confidenza con lo sticking, il sincopato e certi beat e suonavo in diverse band locali. Le prime volte che vidi i Big Brother, mi ero lasciato trasportare dall’insieme della band, dalla vocalità unica di Janis Joplin, senza soffermarmi molto sul drumming di David Getz. Quella band ti lasciava a bocca aperta! Tempo dopo però, vidi David suonare in un locale ed ebbi modo di soffermarmi sul suo drumming... Ricordo che dissi a me stesso: “questo ragazzo è straordinario... Mi ricorda Elvin Jones...” beh, David suonava davvero!

Anche le band inglesi, come The Who e Led Zeppelin, suonavano dalle tue parti?
Sì, avevo visto The Who al Fillmore West e in un piccolo locale chiamato Carousel Ballroom. Quella sera ero anche riuscito ad acchiappare un paio di bacchette che Keith Moon lanciava nel pubblico in continuazione. Sfortunatamente le ho perse.... Ho anche visto il Jeff Beck Group... sensazionale! E ho avuto la fortuna di assistere a una jam di Jimi Hendrix: non era stato un vero e proprio concerto, non aveva fatto nulla di straordinario e decisamente distante da ciò che aveva fatto nei suoi 3 dischi fenomenali! Vederlo su quel palco mi aveva un po’ deluso, non perché non sapesse ammaliarti col suo playing... quello lo aveva messo in mostra eccome... piuttosto perché ti rendevi conto di quanto la tecnologia stesse cominciando a influenzare la musica. Ciò che sentivi nei suoi dischi era frutto di attente sovraincisioni in studio, cose che, sul palco, non poteva riproporre. In pratica, ero rimasto deluso dai suoni e da ciò che ascoltavo sui suoi dischi e che non si poteva riprodurre sul palco. Erano gli anni in cui iniziavano ad influire le gigantesche amplificazioni... un sacco di feedback e suoni molto funky. Non so nemmeno se allora microfonassero le batterie!

Prima hai menzionato il Music College of Marin...
Nel ’69, dopo che mi sono diplomato, andai al College Of Marin e le cose presero a cambiare: mi sono imbattuto in Ginger Baker e Mitch Mitchell, a mio avviso i più grandi in assoluto. Quando prendi a studiare jazz e musica classica, riesci a capire davvero le sfumature del loro drumming! Insomma, in quel periodo, il mio palato si faceva più fine e così i miei gusti musicali...

... in che senso?
Cominciai ad allontanarmi dal R&R e preferire musica più complessa, come il jazz e i musicisti del progressive.

Quindi hai iniziato a suonare con musicisti jazz, come Woody Shaw e Mark Isham?
Ascoltavo molto Joe Zawinul e il suo primo disco dal titolo omonimo, in cui suonava il trombettista Woody Shaw. Un anno più tardi dall’uscita di quell’album, finii col suonare accanto a Woody. Una volta, in una intervista per Downbeat, il giornalista gli chiese dell’importanza dei musicisti di colore nel jazz. Wood rispose che “non era il colore della pelle a dare un senso alla musica!” E aggiunse: “C’è un batterista con cui sto suonando, Terry Bozzio, che è un fottuto portento! Così come Eddie Henderson è straordinario! Ed entrambi sono bianchi!” Fu incredibile per me leggere quelle parole...

Deve essere stato emozionante...
Tutto quel periodo è stato emozionante, con tutti quei nomi che giravano nell’ambiente jazz... Avevo imparato a conoscerli e, ancora meglio, avevo avuto modo di suonare con loro! La cosa buffa è che, quando penso e ripenso alle cose importanti della mia vita, scopro che loro ci sono sempre stati ed io non me ne ero accorto! [ride]

Dunque, hai iniziato come batterista jazz e non rock o fusion...
Esatto. Mi sentivo vicino alle improvvisazioni di Miles Davis e Joe Zawinul: entrambi musicisti di stampo classico ma che riuscivano a inserire nella loro musica elementi diversi... come l’elettronica, la musica etnica e il mood più sperimentale. Avevano una conoscenza infinita della musica e riuscivano a improvvisare con qualsiasi cosa. Questi due grandi musicisti erano dotati di grande tecnica ma, soprattutto, sapevano come utilizzarla. Sapevano come raccontarti una storia, così come sapevano entrare nel profondo, alla ricerca di intuizioni fresche e autentiche.

È ciò che hai fatto anche tu?
A mio avviso è l’aspetto più importante del fare musica. Il fatto della ricerca e sperimentazione mi ha dato molti frutti, perché è una sorta di sfida interiore: impegnarsi a ricercare qualcosa di bello e innovativo, così che la gente possa apprezzare chi sei tu, dentro.

In Walking In My Time e in Godspell avevi suonato con l'orchestra, giusto?
È così. Walking In My Time è stato uno dei primi musical gospel, cristiani: una sorta di preludio a Jesus Christ Superstar. Avevo rimpiazzato per una settimana il mio amico Pete Monyeu e così ebbi l’occasione di essere convocato per un’audizione per Godspell. Mi presentai con il mio rullante Tony Williams Piccolo della Gretsch e feci colpo. Ma a un certo punto, il tizio delle audizioni mi disse: “dobbiamo soltanto lavorare sul tuo rullante e darti un assetto un po’ più rock... per il resto sei perfetto!” Lo cambiai ed ebbi quel lavoro per 13 mesi... Una cosa un po’ strana visto che solitamente, a San Francisco, gli spettacoli teatrali restavano in cartellone per un massimo di 6 settimane... Per me fu un’esperienza fantastica. Alla fine dell’ingaggio, tornato a casa dai miei genitori, riuscii a comperarmi un nuovo drumkit e... una automobile!

La ruota iniziava a girare...
Presi ad andare nel backstage di tutti i fottuti concerti dei miei eroi del jazz e mi presentavo, ma non servì a molto. Ma poi, all’improvviso, la ruota si mise in moto... ricevetti una telefonata e le cose iniziarono a girare. Bisogna sempre farsi trovare pronti: i miei maestri mi hanno sempre detto studiare tutto, costantemente.

L’essere preparati è fondamentale per diventare un musicista di successo...
Per il musical Godspell, quando venni chiamato da Luis Gasca, ero molto preparato. Lo stesso con gli Azteca. Quando feci l'audizione, mi vide Eddie Henderson, che all’epoca suonava con loro, e disse che mi avrebbe voluto anche nel suo progetto. Una cosa dietro l’altra... Insomma, presto divenni il batterista più conosciuto a San Francisco. Poco dopo fui chiamato da George Duke, per un ingaggio alla corte di Frank Zappa! Ovviamente ci sono stati anche dei momenti bui, in cui mi sono chiesto se stavo facendo la cosa giusta... Però, un passo alla volta, le cose iniziarono a girare per il verso giusto.

Eri stato chiamato da George Duke, per entrare nella band di Frank Zappa?
Sì, aveva chiamato una cinquantina di batteristi di Los Angeles per le audizioni, ma non aveva trovato nessuno, dunque ampliò la ricerca a batteristi di altre città e disponibili a spostarsi.

Era stata dura?
C’erano 50 ragazzi, fu una audizione dura davvero. Ero spaventato a morte, ma fui in grado di leggere tutto, memorizzare tutto e avere il giusto feeling; riuscii ad accompagnare George in modo perfetto e ottenni l’ingaggio. Fu un’altra esperienza incredibile!

Dentro di te, sapevi che avresti ottenuto quell’ingaggio?
No, pensavo che non ci sarebbe stato modo di ottenere quel fottuto ingaggio! Era così tanto il materiale da imparare e così tanti i batteristi che non ce l'avevano fatta... All'audizione c'erano due Octaplus giganti che Frank aveva fatto installare per Chester Thompson e Ralph Humphrey. Ognuno di noi si sistemava il kit come meglio credeva e ci si alternava a suonare. Fino a che si sentiva Frank dire: “mi dispiace, avanti il prossimo!”

Quindi avevi sostenuto le audizioni con un drumkit non tuo?
Mi ero portato un rullante e un pedale. Sapevo che i Weather Report stavano cercando un batterista e avevano organizzato le audizioni a L.A. in quei giorni. Convinto che non avrei superato il test con Frank Zappa, mi misi a cercare delle informazioni in giro, giusto per provare anche con loro e non tornare a casa con la coda fra le gambe. Mentre mi davo da fare in tal senso, venni a sapere che i Weather avevano preso il precedente batterista di Frank. Merda... ero spaventato a morte!

Eri molto preparato col materiale di Frank Zappa?
Credo che iniziai ad ascoltare il suo materiale soltanto tre giorni prima delle audizioni. Ero terrorizzato, perché non era un artista che seguivo tanto, sebbene sapessi che si trattava di musica altamente complessa. In più, la mole del materiale da memorizzare era enorme, per non parlare dell’incredibile qualità di Roxy & Elsewhere... Ricordo che a quel punto dissi a me stesso: “ma come ho fatto ad ignorare questa musica sinora?”

Cosa successe superata l'audizione?
Mi portò a cena e poi al Record Plant, dove suonò alcune tracce del suo disco One Size Fits All. (1975) Materiale strepitoso! Io avevo acquistato da poco Apostrophe (1974) e Roxy & Elsewhere (1974) due dischi strepitosi, gli unici di Zappa che avevo sentito fino a quel giorno; poi, quella sera, quando ascoltai quel disco, con il brano Inca Roads e tutte le altre tracce, rimasi estasiato... le gigantesche casse Westlake del Record Plant Studio sputavano fuori quei suoni incredibili! Non avevo mai visto nessun posto come il Record Plant: era come una vecchia nave hippie, ma dotata di attrezzatura high-tech mai vista prima. Non avevo mai visto un mixer di quel tipo in vita mia, nulla di quelle cose mi era familiare: mi sembrava di sfiorare con le dita il cruscotto dell’Enterprise! In più, c'era Frank che suonava quella musica incredibile... Beh, fu un momento memorabile. Più ascoltavo quel sound e quelle tracce, più mi domandavo se sarei mai stato in grado di suonarle.

Frank ti aveva rassicurato?
Mi disse che la settimana successiva sarebbero iniziate le prove. Così mi spostai da San Francisco ed andai ad abitare in un hotel in Vine Street, di fronte al Musician’s Union. Provavamo tutti i giorni, mi alzavo presto e facevo molti esercizi per il warm-up e per il controllo dello sticking.

Seguivi una tua routine?
Mi aveva passato tutto ciò che aveva scritto per la sua band di 12 elementi: un'orchestra con i fiati e tutto il resto. Musica molto complessa...

Quella era la firma di Frank Zappa?
Già. Mi preparai delle parti con tutti quei ritmi - 5/1, 5/2, 5/3 e 5/4 - e presi a suonarli in svariate combinazioni random, senza uno schema preciso. Mi allenavo ogni maledetta mattina in modo quasi maniacale: mi sembrava di essere in un campo d’addestramento dei Marine. Poi iniziarono le prove, per 6/8 ore al giorno, cambiando costantemente tracce e partiture. Utilizzavo un registratore per aiutarmi a memorizzare tutte le variazioni ma ogni giorno c’era un arrangiamento diverso. Fu una grande sfida per me, molto. molto stimolante. Un genere di esperienza che puoi vivere solo se ti unisci ai batteristi Kodo, o al drumming da parata militare... una sorta di situazione-culto, in cui vivi e respiri la musica a pieni polmoni!

Come fu registrare Bongo Fury (1975)?
Registrare quel disco fu piuttosto divertente, anche perché, a quel punto, avevo preso abbastanza dimestichezza con quel tipo di musica. Il primo tour stava terminando e avevo imparato a conoscere le cose che Frank si aspettava da noi. Lavoravamo in tre o quattro modi diversi: c’erano brani come Approximate, The Be-Bop Tango e The Black Page, che andavano suonati esattamente come erano scritti, ogni nota. E c'erano brani, come ad esempio quelli del disco Uncle Meat (1969) in cui bisognava mantenere un groove e attenersi all’arrangiamento. Partiture da big band, se vogliamo. E poi c’erano situazioni in cui Frank improvvisava un lick e noi dovevamo impararlo al volo; poi ne improvvisava un altro e così via. Dopo cinque minuti ci trovavamo con una serie di lick fusi uno nell’altro. Suonava una serie di parti con un tempo diverso che poi univa per formare un brano... Una serie infinita di note e cambi di registro. Pazzesco! Altre volte, infine, se ne usciva con pezzi tipo Portuguese Lunar Landing, che non so se è mai stato pubblicato... [Non appare in nessun disco di Frank Zappa] Ricordo che a volte entrava in studio con un foglio con sopra un testo, poi prendeva a pensare alla musica in base alle parole e, tra una strofa e l’altra, ci inseriva gli arrangiamenti di alcuni strumenti. La musica di Frank era in continua evoluzione... cambiava ogni giorno e tu ti dovevi trascriverti tutti i cambiamenti.

Frank Zappa aveva l’ultima parola su ogni brano che suonavate?
Se qualcuno suonava qualcosa che lo colpiva, allora la si teneva. Viceversa, dovevamo ricominciare daccapo. Ad esempio, il brano Baby Snakes, inizialmente lo avevo impostato con un ritmo punk, mentre Frank mi disse: “no, no, no... qui voglio un mood di tipo country western, con entrambe le mani impegnate sul rullante e un ritmo sincopato.” E così cambiai il mio approccio, perché era così che il brano doveva andare.

Eri in studio quando arrivò Captain Beefheart per il disco Bongo Fury?
Sì, e fu strano. Per come la vedevo io, la band – prima del mio arrivo – era una formazione perfetta, che non avremmo potuto eguagliare. Nutrivo un’ammirazione illimitata per tutti quei musicisti! Quando arrivai io, Frank chiamò Denny Walley, un musicista slide favoloso, ma che non aveva mai studiato il suo strumento. Poi, arrivò il turno di Captain Beefheart, un astrattista dell’avanguardia e poeta surrealista; dovevi essere lesto per capire le sue metofore, ma io lo adoravo. Amava Ornette Coleman e artisti simili e mi ha fatto avvicinare alla pittura e al disegno... Aveva sempre con se un sacchetto della spesa con dentro fogli e pennarelli che perdeva di continuo. Era un disastro che camminava! [ride] I suoi disegni e dipinti erano meravigliosi. Era un personaggio divertente e affascinante, il compagno ideale da avere on the road...

.... più conoscevi Beefheart, più ti appassionava?
Pensavo che fosse un amico di Frank, nel senso che era uno che arrivava da un’altra era, molto distante dalla nostra. Uno che si era perso nei suoi viaggi ed era bisognoso di una mano per tornare a casa. Un giorno, mentre eravamo in tour, ci fermammo in un negozio di dischi ad Austin, Texas. Frank acquistò un piccolo stereo portatile e mise su Trout Mask Replica. Lo ascoltammo e mi disse: “amico, questa roba è davvero strana... e la suonano sempre allo stesso fottuto modo!” Ricordo che gli risposi: “oh mio Dio, Beefheart è un fottuto genio!

Che tipo di kit utilizzavi con Zappa?
Inizialmente avevo la Ludwig Octaplus ma era così grossa che presi man mano a togliere dei tamburi, come avevano fatto Narada Michael Walden e Billy Cobhman. Un giorno però, nel secondo tour, dissi a Frank che avevo una Gretsch nera, molto rock & roll, e che mi sarebbe piaciuto utilizzare quella. Lui fu d'accordo.

Hai utilizzato la tua Gretsch per registrare l’album Zoot Allures (1976)?
Sai che non me lo ricordo? Registrammo quel disco dal vivo, con alcune parti ultimate al Record Plant Studio. Ricordo quel disco, ma non la batteria... Ricordo invece che avevo utilizzato la Ludwig Octaplus nei brani The Ocean Is The Ultimate Solution e Sleep Dirt.

Nel 1978 hai suonato nel live Zappa In New York, disco che contiene il brano The Black Page Drum Solo/Black Page#1. (4:06) Era stato espressamente scritto per te?
Un brano fuoriuscito con naturalezza dalla sua penna... Frank era affascinato dal mio drumming e, dato che era un batterista anche lui, sapeva bene ciò che facevo dietro i tamburi. Prese spunto dal suo know-how di batterista e dal mio drumming... credo che quel pezzo sia stato una sintesi di tutto ciò. Non posso dire con certezza che l’abbia dedicato a me anche perché, Zappa è Zappa... ovvero, su un altro livello. Tutto ciò che creava, andava al di là della personalità di chi incontrava...

Come hai reagito quando hai visto per la prima volta la partitura di The Black Page?
Stavamo provando, quando Frank arrivò e, porgendomi uno spartito, mi disse: “che ne pensi, Bozzio?” Gli risposi che ero impressionato: naturalmente c’erano dei passaggi che non riuscivo a leggere, ma tutto il resto era pazzesco. Mi misi subito a lavorarci sopra e 20 minuti dopo ero pronto con le mie parti. Era come fare una audizione... Mi disse che andavano bene e si mise a scrivere tonalità e armonie. Poi iniziammo a suonare il brano con il resto della band. Fu un’esperienza fantastica e, sicuramente, un grande traguardo per me, visto che non era musica facile da suonare.

... musica non facile da suonare, fa intuire il livello di quel brano!
È diventato famoso per questo motivo. Il titolo - The Black Page - è nato quando vennero chiamati 40 dei migliori musicisti sinfonici di L.A [Abnuceals Emuukha Electric Symphony Orchestra]: musicisti pronti a suonare di tutto, molto preparati. Ciononostante, Frank aveva notato che persino loro giravano nervosi attorno alla macchinetta del caffé poco prima di essere chiamati; avevano paura di dover fronteggiare una partitura Black, ovvero così fitta di note... non volevano certo perdere la loro fama mondiale. Di fatto, il titolo del brano è stato un modo sarcastico e un po’ sadico di descrivere il peggior incubo dei sessionmen! [ride]

Avevi già suonato con Patrick O’Hearn prima di entrare nella band di Zappa?
Conoscevo Patrick perché aveva suonato con Mick Nock nei Fourth Wave. Nock era un pianista, compositore e artista della Nuova Zelanda, un incredibile e talentuoso jazzista nella scuderia della famosa etichetta ECM. Avevo suonato con lui nel distretto di San Francisco, quando venne ingaggiato Patrick per alcune nostre date. Stan Getz voleva un sound più elettrico e così venne rivisitato il materiale di Mick... Stan era un autentico asso nella manica! Patrick ed io, siamo diventati molto amici da subito per via delle nostre personalità affini. Era timido, un tipo diverso dagli altri... Un grande bassista e cuoco. Una persona molto divertente e, direi, il mio migliore amico. Possiamo anche trascorrere mesi senza sentirci, ma il nostro feeling resta invariato e fuoriesce all'istante, ogni volta che ci incontriamo!

Nel 1977 hai suonato con i Brecker Brothers nel disco Heavy Metal Be-Bop...
Frank aveva l’estate libera e dunque stava scrivendo nuovo materiale; oltretutto credo che stesse curando la produzione dei Grand Funk Railroad [Good Singin’, Good Playin’] ed era impegnato con certi nuovi accordi con la Warner Bros. Pensai quindi di farmi avanti con i Bros. Era un tour di sole 3 settimane e mi trasferii a New York per 5 settimane per lavorare stando più vicino a loro.

Come fu registrare quel disco?
È stato come tornare a casa! Come ho sempre detto, suonare con Zappa significava trattenermi molto e, soprattutto, non uscire mai dal seminato. Ero abituato a suonare in spettacoli che duravano 4 ore, con una potenza che raggiungeva ogni spettatore presente nell’arena! Dunque, trasferire quella stessa energia in luoghi più piccoli, come i locali, per me fu impressionante... Una sensazione bellissima!

Eri libero di suonare come volevi?
All'inizio cercavo di mantenermi piuttosto defilato, ma loro insistevano a dirmi che mi dovevo esprimere liberamente. Fu per me un’esperienza fantastica. Il disco venne registrato in presa diretta, senza le tastiere: semplicemente, c’era solo Barry Finnerty con il suo Guitorganizer. Barry è un altro mio carissimo amico, un musicista sopraffino.

Sei stato al fianco di Zappa per 10 anni, considerando le diverse pause...
Ogni vola che terminava un tour, Frank era abituato a rivoluzionare la band, eccetto me. Capitava di andare in studio e recuperare vecchio materiale, come Wino Man, in cui la batteria di Aynsley [Dunbar], non lo convinceva abbastanza. Gli piaceva la mia abilità di sistemare le cose.

Dunque voi due, passavate molto tempo in studio?
Esattamente. Un giorno portò una Fender a 12 corde accordata in settima maggiore, settima minore e sesta maggiore. Un tritono di terza maggiore e terza minore, che faceva sì che ogni nota fosse un intervallo e che ogni coppia di note in un accordo fosse semplicemente incredibile! Aveva montato le corde basse e alte scambiate, e montato un pickup Barcus Berry nella posizione centrale e al manico. Quella chitarra sprigionava un sound vetroso che non avevo mai sentito prima, pazzesco! Iniziammo a jammare per 45 minuti col registratore acceso e, ogni 15/20 minuti circa, bisognava cambiare il nastro perché finiva...

È incredibile...
Aveva quindi fatto l’editing di quel materiale e ne era nato The Ocean Is The Ultimate Solution. [pubblicato su Sleep Dirt, 1979] Dave Parlato aveva suonato il basso ma Frank non pareva convinto. Mentre Frank rimaneggiava alcune parti, ricordai che il mio amico Patrick [O’Hearn] stava suonando al Lighthouse con Dexter Gordon. Andai a vederlo e, dopo il concerto, gli chiesi se si fermava da me visto che erano le 3 del mattino e, considerando che Frank, quasi sicuramente, stava ancora lavorando, avremmo potuto passare a salutarlo. Patrick aveva con sé il suo preziosissimo basso italiano ed io gli suggerii di non lasciarlo sul sedile della mia auto. Arrivati da Frank, gli dissi: “Lui è Pat, un mio caro amico, suona con Dexter ed è un bassista fantastico!” Frank rispose subito: “tu suoni quel basso?” e Pat disse: “Assolutamente, sì!” Pat aveva appena fatto 4 set di bebop con Dexter Gordon, ma Frank incalzò: “beh, cosa aspetti? Tira fuori quel basso dalla custodia!” Frank collocò i microfoni giusti e Pat iniziò a suonare. Quel brano aveva diversi cambi. Pat si lasciò prendere completamente da quel ritmo. Fu così che ottenne l’ingaggio con Zappa.

Nel 1978 sei entrato negli UK, hai registrato due album - Danger Money (1979) e il live Night After Night – ed hai sostituito Bill Bruford. Ce ne parli?
Mi piaceva il sound di Bill quando ancora suonava negli Yes. Eddie [Jobson] dopo aver suonato alcune vecchie cose dei King Crimson, era maturato molto come musicista ed era giunto a suonare con [Allan] Holdsworth e Bill [Bruford]. Loro tre, più John Wetton, avevano formato gli UK. Beh, il primo disco degli UK [omonimo, uscito nel 1978] era strabiliante, con la voce di John [Wetton] in gran spolvero!

In che modo eri entrato negli UK?
Era la primavera del ’78 ed ero impegnato con i Brecker Brothers; avevo appena fatto le audizioni per i Thin Lizzy, ma non erano andate per il meglio. Eddie [Jobson] stava suonando con gli UK al Santa Monica Civic e mi invitò a vederli dicendomi: “ascoltami, la band credo che si scioglierà. Bill e Allan prenderanno altre strade e John ed io vorremmo che tu suonassi la batteria con noi!” Guardai l’intero concerto sapendo che da li a poco quella band sarebbe cambiata. Non potevo dire nulla a nessuno, pertanto tenni la bocca chiusa.

Ti era piaciuto suonare con John Wetton?
Fu molto costruttivo ma anche frustrante, perché mi sarebbe piaciuto suonare qualcosa di più moderno. Non mi piaceva la British old school e tanto meno che ci associassero a band come ELP o altre che nemmeno conoscevo...

È stato allora che sono nati i Missing Persons?
Ho formato i Missing Persons assieme a Warren [Cuccurullo] e Dale [Bozzio]. In quel periodo Frank [Zappa] era a Londra e, mentre vivevamo là, nacque l’idea di formare una band, appunto i Missing Persons. Dale è entrata nel progetto da subito.

Hai incontrato Dale nella band di Zappa?
Sì è così. È successo il secondo anno in cui ero nella band di Frank... ricordo che suonavo con la mia Gretsch. Dale conosceva Frank da tempo ed era solita entrare in sala prove a guardarci: era una coniglietta di Playboy e quando entrava, tutti esclamavano: “Ooh, ooh!”

E tu sei stato la sua scelta? Il ragazzo più invidiato, insomma...
Così andarono le cose. Pareva la classica avventura di una notte e invece... si è trasformata nei Missing Persons! [Tempo dopo Dale divenne la moglie di Bozzio]

Era importante per te suonare la batteria in una band tua?
Sì. Non so se si trattasse di una questione di ego o semplicemente di una sorta di evoluzione tecnica. Bisogna raggiungere un grado di preparazione adeguata per gestire una band, darle una direzione e supportarla nel migliore dei modi. Ne ero orgoglioso... anche se, con il senno del poi, devo confessare che la sensazione di completezza l’ho raggiunta solo quando mi sono immerso nei miei progetti solistici.

Avevi già in mente quale direzione prendere con i Missing Persons?
No, non esattamente. Sapevo però che quel che suonavamo io, Warren [Cuccurullo] e Dale [Bozzio] aveva personalità. Avevamo la totale libertà di azione, pur se le nostre composizioni rispettavano certe regole e strutture. E quando qualcuno se ne usciva con qualche idea selvaggia, toccava a me trascriverla sul pentagramma e creare una linea-base da seguire. Era un lavoro difficile... Ed era anche difficile fare i conti con la personalità di Dale di quel periodo. Non era facile andare d’accordo, essere sposati e allo stesso tempo lavorare uno accanto all’altra... Tuttavia, con il passare del tempo, trovammo una strada. Iniziammo a esibirci, Dale mostrò subito di sentirsi a suo agio (erano le sue prime esperienze su un palcoscenico) e questo ci diede una maggiore sicurezza... e gli attriti personali si attenuarono!

Ken Scott si era occupato della produzione del vostro primo album, Spring Session M (1982, divenuto disco d’oro)...
Ken fu fondamentale, anche perché c’erano parecchi pregiudizi sulla nostra band e bisognava riuscire a farli dissolvere. Alcuni ci consideravano musicisti formidabili, visto il passato alla corte di Zappa, mentre altri ci consideravano soltanto dei modelli da copertina delle riviste più glam. Tuttavia, tornando al Santa Monica Civic, facemmo subito il soldout.

Non sapevate quale direzione avrebbe preso la band?
Non subito, ma ci provammo con determinazione. La stazione radio KROQ ci aveva aiutato molto, così come altre radio locali. Alla gente piaceva la nostra musica e le cose presero a girare. Fu come cavalcare un’onda. Suonavamo davanti al pubblico e avvertivamo la loro energia. Un’esperienza incredibile.

Come giudicavi il tuo playing nell’album Spring Session M?
Lo ritenevo ottimo. Avevo un po’ di problemi con la voce di Dale, poiché in testa avevo un’idea che lei poi cantava in tutt’altro modo. Ma, al di là di ciò, la musica era fantastica: complessa e molto interessante.

Erano i primi anni Ottanta, la vostra musica era lungimirante...
Un paio di anni fa ho riascoltato con attenzione The Closer That You Get (dall’album Rhyme & Reason, 1984), mi ero dimenticato di quante cose succedono al suo interno... Avremmo potuto imbastire un album più commerciale se avessimo dato retta a Ken Scott: oltretutto, avevamo inserito troppi potenziali singoli, mentre avremmo dovuto tenerceli gli album successivi, perché è così che funziona il music business. Ma io avevo ragionato da artista... Sfortunatamente, il corso del tempo e i vari cambiamenti, ci avevano contagiati. Tutti, a quel punto, grazie a MTV avevano accesso a grandi artisti come Michael Jackson. La concorrenza era tanta, c’erano anche GoGos e Berlin capitanati da una donna e via discorrendo, dunque trovare spazio nelle radio diventava per noi sempre più difficile. Capitava che, per forza di cose, diventassimo la quarta scelta.

Che tipo di kit utilizzavi con i Missing Persons?
Una Tama con due casse e Rototom Remo a cui abbinavo i piatti Paiste.

Un’altra tappa fondamentale della tua carriera, è stata suonare con Jeff Beck. La prima volta che hai suonato con lui fu per il video di Throwaway, giusto?
Ero in giro per alcune clinics, quando telefonò la mia ex moglie e mi disse: “Mick Jagger e Jeff Beck sono al Country Club a pochi chilometri da dove sei tu adesso. Non hanno trovato un batterista per il video che gireranno domani. Vorrebbero che tu facessi le audizioni!” Ci andai. Avevano noleggiato una Tama con grossi tom da 14” che mi arrivavano alla fronte e un paio di bacchette rotte! [ride] Tutto ad un tratto mi ritrovai a jammare con loro.

Com’ è stato incontrare per la prima volta Jeff Beck?
Avevi i capelli un po’ troppo corti e mi ricordava Nigel Tufnel nel film Spinal Tap. Dissi a me stesso: “ma che diavolo ci fai qui?” E c'era anche Mick Jagger, mi sembrava di sognare! Ho suonato Little Red Rooster con loro. Non ci potevo credere... Fu un momento indimenticabile e ci divertimmo parecchio. Girammo il videoclip di Throwaway e poi ci mettemmo a jammare 6/8 pezzi per il pubblico che era venuto a veder girare il clip. Dopodiché, Jeff mi chiese se avessi voluto far parte di un suo progetto... naturalmente risposi di sì.

Il progetto in questione era il suo Guitar Shop (1989)?
Jeff [Beck, guitar], Tony [Hymas, keyboard] ed io ci trovammo a jammare per verificare il nostro interplay, verificare la chimica... da lì in poi nacque quel disco: un gran bel lavoro. Vinse un Grammy. Stix Hooper (batterista dei Jazz Crusaders), ci premiò alla cerimonia dei Grammy e per me fu una doppia emozione, visto che lo considero uno dei migliori batteristi al mondo.

In che modo era nata la title track di quell’album?
L’ingegnere del suono, Leif Masses, ci aveva ripreso in quella che doveva essere la nostra semplice jam di collaudo. Poco dopo ci raggiunse in sala e disse: “ragazzi, fareste meglio ad ascoltare quello che avete appena partorito!" Ascoltammo il nastro e rimanemmo tutti di stucco.

Avevate intuito che, musicalmente, stava nascendo qualcosa di speciale?
Assolutamente, sì. Il senso ritmico di Jeff, si sposava alla perfezione col mio drumming. Raramente mi era capitato di suonare con musicisti che mi permettessero di spingere in quel modo. Grande la libertà, e io adoro quel gene di situazione, come adoro il tipo di feeling di Tony Williams o di Miles Davis…quest'ultimo un autentico proiettile conficcato in mezzo agli occhi! Adoro riuscire a spingersi al limite e mantenere alta la guardia! Jeff Beck è dotato di un dono divino. Pura magia... tutto quel che fa, accade in modo del tutto inconscio e naturale. Il suo tocco e il suo sound sono pazzeschi: è come se Dio parlasse attraverso il suo playing e la sua chitarra...

Siamo tornati al capitolo An Evening of Solo Drum Music con cui abbiamo iniziato la nostra intervsta: ce ne parli?
E’ uno show nato sulla scia delle varie clincs che ho fatto. Dopo la crisi economica del 2008, lo sponsor non è più stato in grado di supportarmi e, di conseguenza, non ho potuto più portare in giro il mio Big Kit. Dunque, mi sono arrangiato e ho fatto tutto da me. Ho assunto un agente che si occupasse del booking e siamo riusciti a organizzare due tour vincenti in Europa, più parecchie date fortunate in Giappone.

A proposito del tuo Big Kit, ci dai qualche informazione tecnica?
E’ diventato uno strumento musicale completo e a se stante. Ogni tom è collegato ad un Midi Pitch che raddoppia tutto ciò che suono; dunque, produco musica completa tramite un drumkit. Non credo sia mai successo prima. Credo che il tutto sia una miscela ideale, data dalla combinazione di una intelaiatura di stampo classico (la struttura dei suoni), con un approccio jazzy a-la Miles Davis e Weather Report (in quanto a improvvisazione e spontaneità). Senza tralasciare la tecnica e alcune influenze dall’Africa centro/orientale.

C’è molto cervello nell’evoluzione del tuo sound?
Chi ascolta la mia musica, deve poter viaggiare ad occhi chiusi con me. Ha una texture imponente ed è ricca di colori e dinamiche. Ho notato che tutto questo piace al mio pubblico. Ho idea di portare la mia musica negli Stati Uniti e ficcargliela in fondo alla gola! [ride]
[In realtà, Bozzio oggi sta portando in giro lo show con il suo North American Tour 2014...]

Ti piace l’idea di suonare su un palcoscenico da solo?
Sì, è la situazione che mi appaga di più.

Ci sono altri batteristi che hanno questo tuo stesso approccio?
Non lo so, ma non credo. E non lo dico per soddisfare il mio ego, anche perché là fuori ci sono batteristi molto più tecnici di me. Penso però che nessuno concepisca il drumming alla mia maniera. Lì dentro ci metto la mia anima, la mia personalità, e spero che tutto questo possa piacere alle persone che mi ascoltano. Aggiungerò allo show scenografie particolari perché risulti eclettico e stimolante. Non si tratta di un lungo assolo di batteria come qualcuno potrebbe pensare: ma molto di più... musica, melodia... proposte in chiavi, colori e modi differenti.

Userai il tuo kit DW/Sabian?
Sì. DW e Sabian hanno sviluppato alcune mie idee. Sono molto grato ai miei sponsor... senza di loro, tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Pintech mi fornisce ottimi sensori [stick on triggers], mentre Roland gli ottimi Midi Converters. Infine, grazie a Line6, posso trasportare la mia musica ovunque… E’ molto importante, soprattutto se mi ritrovo, ad esempio in qualche locale in Europa, senza il mio sound system, e magari con i monitor che fanno schifo e fanno risultare distorte le note della cassa. A quel punto sarei costretto ad abbassare tutti i volumi rischiando di non sentire più il Midi in modo corretto... una cosa frustrante! Dunque, evito tutto questo con il mio Line6 System. Non ti ho parlato delle bacchette... Uso le mie signature Vic Firth STB1 che trovo fantastiche!

Dunque, puoi controllare con precisione il sound della tua batteria?
Sì, grazie appunto alla mia strumentazione. I luoghi in cui suono, non sono così grandi: dunque, il sound deve attraversare l’ambiente in maniera corretta e raggiungere tutte le persone presenti affinché possano apprezzare, di fatto, le varie regolazioni e specifiche...


Testo di Steve Rosen
Traduzione Paolo Pavone
Foto di Terunobu Ohata e André Ozga

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