Mark Guiliana

Steve Rosen 27 dic 2018
Il suo è un background acquisito dal jazz di alto lignaggio e che lui abbina all’emozione del suonare in ogni contesto. E' quel che è accaduto anche nella registrazione di Blackstar, l’album di David Bowie uscito poco prima della sua improvvisa scomparsa… Abbiamo incontrato Mark Guiliana e ci siamo fatti raccontare come sono andate le cose!

“La prima volta che ho ascoltato Tony Williams, la mia vita è cambiata. Senza dubbio!…”- dice Mark Guiliana, il batterista/compositore del New Jersey oggi sulla cresta dell’onda. “Adoravo ascoltare Tony Williams, Elvin Jones, Roy Haynes, Art Blakey, Max Roach e Jack DeJohnette, quei batteristi in grado di condurre le band di artisti del calibro di Miles Davis, John Coltrane, Wayne Shorter, Freddie Hubbard, Herbie Hancock. Adoravo quel tipo di drumming, mi ispirava nel profondo… e sì, a un certo punto, ho capito che avrei dovuto entrare e seguire quel tipo di percorso…” E così ha fatto…

Da quel giorno Mark Guiliana (nato il 2 settembre 1980) entra in contatto e collabora con artisti di caratura internazionale: il contrabbassista israeliano Avishai Cohen, il tastierista Jason Lindner, il saxofonista Donny McCaslin, il pianista Brad Mehldau e molti altri.
Guiliana scrive e realizza musica per altri ...
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info intervista

David Bowie band
Mark Guiliana
Blackstar
e per se stesso e nel 2014, mentre sta lavorando a pieno ritmo con Donny McCaslin, viene ingaggiato per registrare dapprima il singolo di David Bowie - titolato Sue (Or In A Season Of Crime) ed uscito a novembre 2014 - e, tempo dopo, l'intero album. Ovvero Blackstar, uscito lo scorso gennaio 2016, due giorni dopo l'improvvisa scomparsa del celebre artista britannico.

Nell'intervista che segue Mark Guiliana ci parla delle sue esperienze di batterista, del suo background fatto di jazz e di come è finito a lavorare con David Bowie: l'occasione che ha reso il suo drumming straordinariamente popolare...

Quando ti sei innamorato della batteria, Mark?
Ho iniziato a suonare la batteria a 15 anni, ma senza fare alcun piano al riguardo. Inizialmente, lo consideravo uno dei miei hobby. I miei genitori mi spingevano spesso a scoprire nuove cose, così come mi hanno spinto a provare la batteria di mio cugino. Mi sembrò subito interessante e che valesse la pena provarci…

…cosa è successo dopo?
Iniziai a prendere lezioni da un batterista che abitava nel mio quartiere. All’epoca ascoltavo i Nirvana, Red Hot Chili Peppers e Pearl Jam. Insomma la musica che MTV e la radio mi rovesciavano addosso. Era la metà degli anni Novanta…

Quando hai iniziato ad andare a lezione avevi intenzione di fare sul serio con la batteria?
Inizialmente continuavo a considerarlo un hobby. Poi, piano piano, presi a sentire una connessione particolare con la batteria e molte cose, seduto dietro i tamburi, mi riuscivano molto spontaneamente. Sentivo la voglia di praticare sempre di più, non so dire cosa fosse, semplicemente sentivo il bisogno di farlo… Quel che so per certo, tuttavia, è che una delle ragioni per cui ho perso la testa per bacchette e tamburi, è stato l’incontro con un maestro straordinario: Joe Bergamini. Il suo modo di insegnare mi ha coinvolto e spinto a continuare con la batteria, così come a infondermi la curiosità e la voglia di suonare sui dischi che ascoltavo allora.

A proposito di musica che ascoltavi: prima hai nominato alcune band rock/grunge, eppure la tua carriera ha preso il via negli ambienti del jazz. Come lo spieghi?
Anche in questo caso, l’artefice di tutto fu Joe. Le sue lezioni mi aprirono un mondo: lui cercava sempre di spingermi verso nuovi orizzonti tra cui, appunto, il jazz. Inoltre, ai tempi del liceo, pur di suonare nella band della scuola, mi adeguavo a suonare tutti i generi e, allo scopo, frequentai anche il corso di jazz. Anche in quel caso, fu amore a prima vista. Al college, infine, presi ad approfondire lo studio della musica e del jazz e fu in quel periodo che ebbi l 'opportunità di incontrare e poi suonare con Avishai Cohen…

Cohen è stato il primo artista rilevante con il quale hai collaborato?
Sì, assolutamente. Ho incontrato Avishai Cohen [il geniale contrabbassista israeliano, oggi 45enne] quando ancora frequentavo la William Paterson School nel New Jersey, poco distante da Manhattan. Spesso, di sera, andavo in città per ascoltare gli artisti che si esibivano nei locali: allora uno dei miei idoli era Jeff Ballard [batterista californiano, classe 1963]. All'epoca lui suonava assieme a Avishai Cohen e Chick Corea ed io non me ne perdevo uno di quei concerti! Inoltre, nemmeno a farlo apposta, il mio coinquilino aveva preso alcune lezioni proprio da Avishai, dunque si era creata una sorta di connessione con lui fin dall’inizio…

Quand’è che hai incontrato Avishai Cohen?
Mi propose di formare una rock band insieme ad alcuni miei compagni di scuola, poi mi ingaggiò per alcuni concerti nella zona. Dopodiché, suonammo anche in Europa... era la prima volta che prendevo un aereo per andare a suonare!

Che tipo di esperienza è stata suonare con questo gigante del contrabbasso?
È un mio mentore, sia a livello personale che musicale. Da batterista, ti posso dire che suonare con Avishai è entusiasmante, perché la sua musica ha un groove molto marcato e lui è un artista che ti sa coinvolgere a 360 gradi. Poi, come dicevo prima, è stata la mia prima vera esperienza di batterista professionista, dunque non posso che ricordare quel periodo con grande affetto e gratitudine. Siamo stati on the road dal 2003 al 2008 e in quel periodo abbiamo anche registrato un paio di dischi… un’esperienza impagabile.

Hai suonato la batteria in Lyla (2003) e in At Home (2004) di Cohen: che sensazione hai provato poi ascoltandoti?
Bella domanda. Ero così giovane... calcola che quando abbiamo registrato quei dischi, io andavo ancora a scuola: avrò avuto 21/22 anni, capisci? Penso che allora io avessi ancora quella sana ignoranza che accompagna tutti i giovani! [ride] Quell’incoscienza che ti permette di fare grandi cose senza quasi accorgertene.

Dunque non avevi sentito la pressione in studio di registrazione?
Esatto... e poi considera il fatto che prima di entrare in studio, quei brani li avevamo già suonati almeno ottanta volte! Li conoscevo a memoria e l’intesa, l’interplay, con Avishai, erano ormai rodati dopo tutti quei concerti. In tutti i casi, lo ritengo un risultato soddisfacente.

Che tipo di kit utilizzavi in quel periodo?
La batteria che mi ero comprato quando andavo al liceo! Prima ne avevo una gigantesca e il doppio pedale, ma quando poi mi sono imbattuto nel jazz – avevo16 anni – le cose sono cambiate e l’ho venduta. Ho acquistato quindi un kit molto essenziale - cassa 18”x14”, tom 12”x8” e floor tom 14”x14” - e l'ho utilizzato per registrare quei due dischi di cui parlavamo prima, adottando spesso un’accordatura molto bassa.

Ricordi che batteria era?
Una Yamaha. Mi è durata almeno 10 anni…

È la stessa batteria con cui suonavi con gli Heernt, la tua prima band?
In verità, allora utilizzavo un drumkit piuttosto strano, con il floor tom da 16” convertito a cassa! Era un drumkit ibrido e sinceramente ora non ricordo da quali tamburi e di quali marchi era composto...

Avevi dato vita agli Heernt per sperimentare con la tua musica?
Esatto. Allora ero molto impegnato con Avishai, ma spesso mi ritrovavo a pensare: “mi piacerebbe riuscire a sviluppare le idee che mi frullano in testa da un po’ di tempo...” Così contattai alcuni miei amici musicisti per suonare. Una situazione molto friendly, senza troppi giri di parole: semplicemente, musica e amici. Poco dopo iniziammo a suonare in giro e la risposta fu emozionante. A quel punto pensai che era il caso di buttare giù qualcosa di più concreto…

Ossia registrare il disco titolato Locked In a Basement?
Esatto, registrammo quel disco proprio mentre Avishai stava per pubblicare il suo. Fu un processo molto organico, molto coinvolgente, e la cosa più importante fu che riuscii a dare il meglio di me stesso senza forzare troppo il mio drumming. Non diedi retta a quali influenze stavano in quel momento “contaminando” il mio drumming, lasciai andare le bacchette e suonai ciò che sentivo dentro.

Da quel momento hai iniziato a essere presente in svariate situazioni: il disco Now VS Now con Jason Lindner e la collaborazione con Donny McCasalin, così come l’album Mehliana: Taming The Dragon di Brad Mehldau. Tutti questi stili così diversi hanno sicuramente richiesto approcci diversi al drumkit, giusto?
Beh, sì... direi di sì in quanto a stile, ma non come intento. Il mio obiettivo dietro i miei tamburi, infatti, è sempre quello di mettermi al servizio della musica: sia come sessionman che come promotore di un progetto. L’approccio al drumming cambia secondo i contesti, ma il fine resta il medesimo.

Il tuo progetto denominato Beat Music lo hai concepito come una sorta di ombrello, in grado di ospitare la musica che componevi in quel periodo?
Il bassista degli Heernt, Neal Persiani – uno dei miei migliori amici – entrò a far parte dei Semi Precious Weapons, una rock band che allora andava molto forte, e fu costretto a trasferirsi a L.A. Le nostre possibilità di suonare assieme diminuirono drasticamente, ciononostante la mia voglia di comporre nuova musica non diminuiva, anzi… Misi assieme una sorta di nuova band, quella che oggi si è finalmente cristallizzata dopo aver subito parecchi mutamenti: Chris Morrisey (al basso elettrico), Jason Lindner (alle tastiere) e Steve Wall a occuparsi dell’elettronica. Oggi possiamo contare su un repertorio piuttosto ampio. Per tornare alla tua domanda, direi che ciò che non è possibile suonare con una band, in un modo o nell’altro cerco di suonarlo sotto altre spoglie, capisci? Mi piace improvvisare e spesso ho suonato la musica dei Music Beat arricchendola di nuance diverse. Come testimonia ad esempio Beat Music: The Los Angeles Improvvisations registrato con Jeff Babko alle tastiere, Tim Lafebvre al basso e Troy Ziegler alle tastiere. Sono contento di avere la possibilità di spaziare e di suonare con musicisti differenti.

In questi progetti non c’è la chitarra... è una scelta voluta?
Bella domanda. La prima versione dei Beat Music prevedeva due chitarristi, basso e batteria. Dunque io amo la chitarra ma, allo stesso modo, adoro il synth e le sonorità elettroniche acide; ad esempio, adoro le tastiere di Jason Lindner. Inoltre, mi è facile comporre musica con le tastiere, piuttosto che con una chitarra. Oddio, domani potrei anche cambiare opinione, ma tant’è!

Con l'avvento di Beat Music hai lasciato la tua Yamaha e hai preso ad utilizzare una batteria Gretsch, giusto?
Sono batterie fantastiche! Tutti i batteristi a cui ho fatto riferimento da un certo momento in poi hanno utilizzato le Gretsch. Ho provato diversi marchi e penso che questa azienda sia una di quelle che mi garantiscono il meglio in fatto di drumkit. L’anno scorso hanno riproposto la Broadcaster, la batteria che hanno suonato i più grandi drummer della storia, tra cui Art Blakey. Ovviamente hanno arricchito la configurazione e la qualità dei materiali impiegati, ed il sound è ammaliante e corposo. Inoltre, Gretsch è un marchio che ha scritto la storia della batteria, e questo è un valore aggiunto...

Ci descrivi il tuo attuale setup?
Utilizzo una Gretsch Brooklyn con cassa 18”, rack tom 12”, floor tom 14” e rullante 14x5,5" ed una Broadcaster Bebop molto, ma molto, bella! Come piatti utilizzo Sabian: 14” HHX Click Hats, 16” Crash Ozone HHZ coi rivetti, il prototipo di un 23” Artisan Ride e un 20”Artisan. Bacchette Vic Firth, pedale Yamaha e batteria elettronica Roland SPD-SX.

E’ lo stesso equipaggiamento che hai utilizzato in studio con David Bowie?
Sì, è così. L’ho utilizzato per suonare nel suo singolo titolato Sue (Or in a Season of Crime) che poi è finito su Blackstar, il suo ultimo disco... Con noi in studio c’era anche Maria Schneider, una musicista straordinaria, ed è stata lei a coinvolgermi nel progetto...
[Maria Schneider è una nota compositrice e concertista jazz statunitense. Vincitrice di Grammy Awards, negli anni Ottanta ha collaborato con Bill Evans e Bob Brookmeyer. E’ co-autrice di Sue (Or in a Season of Crime), il singolo tratto da Blackstar, l'album di David Bowie uscito lo scorso gennaio 2016, poco prima della sua scomparsa]

Secondo te, perché ti hanno scelto per suonare in quel contesto?
Penso perché ero il batterista più adatto a suonare quel pezzo! [ride] Donny McCaslin [sassofonista] ha suonato nella band di Maria Schneider per oltre dieci anni, quindi si conoscevano da tempo. Ho intuito che Donny abbia fatto ascoltare a Maria un suo album in cui io ho suonato la batteria e ne è rimasta colpita. Lo ha passato a David Bowie perché lo ascoltasse e... hanno deciso di coinvolgermi.
[Sassofonista del circuito jazz di alta caratura, Donny McCaslin ha militato negli Steps Ahead, Gary Burton Group, Gil Evans Orchestra, Maria Schneider Orchestra, Dave Douglas... oltre a vantare una nutrita discografia da solista, il cui ultimo album - Fast Future (2015) - ha accolto il drumming di Mark Guiliana]

Com’è stato registrare con David Bowie?
Abbiamo provato quel singolo un paio di volte, tutti assieme, poi lo abbiamo registrato. È stato incredibile, emozionantissimo! Tempo dopo David Bowie ha deciso che avrebbe voluto la band di Donny per registrare tutto l'album. Io ero già al settimo cielo per avere registrato il singolo, figurati scoprire che avrei suonato tutto il disco!

Sei sempre stato un fan di Bowie, giusto?
Assolutamente, sì. Amo la sua musica, soprattutto Low, Heroes e Lodger, la sua famosa trilogia di Berlino degli anni Settanta, con la collaborazione di Brian Eno... Naturalmente, quando seppi che avrei registrato il singolo e poi l’intero album di Bowie, sono andato a studiarmi a fondo la sua discografia.

Cosa ne pensi dei batteristi che hanno suonato con Bowie nel corso del tempo: Sterling Campbell, Matt Chamberlain, Mick Woodmansey, Aynsley Dunbar e Tony Newman?
Sono ottimi batteristi che si sono sempre messi al servizio delle song... e stiamo di song incredibili! In tutti i casi, la musica di Bowie ha sempre favorito la libertà stilistica dei musicisti coinvolti a suonare, consentendo loro, di conseguenza, di farsi notare. Mi sento onorato di aver potuto lavorare con questo grandioso artista!

Come sono state le prime sessioni in studio per la registrazione di Blackstar? Eri agitato?
Come ti dicevo, avevo già registrato il singolo, dunque non ero molto agitato. In più David era una persona squisita, generosa e divertente... Un artista che mi ha davvero impressionato.

Ha fatto di tutto per farvi sentire a vostro agio…
Assolutamente sì, da subito. Prima non ti ho detto che Bowie era venuto a sentirci al 55 Bar. [Noto locale di New York] Capisci perché non ero troppo agitato? Ormai aveva visto suonare tutti noi della band di Donny [McCaslin]... Inoltre, Tim [Lefevbre, bassista] ha suonato con Bowie per otto anni e Jason [Lindner, tastiere e synth] quasi dieci. Insomma, mi sentivo in un habitat ideale.

In Blackstar [il brano] c’è un groove di batteria e basso molto interessante, come è nato?
Di tutte le song, David aveva già imbastito i demo: noi abbiamo fatto in modo di arricchirli e valorizzarli, ciascuno con i propri interventi.

E di Lazarus cosa ci dici?
Ho cercato di essere il più essenziale possibile e fare una performance di qualità. Ma, soprattutto, ho interagito con gli altri musicisti della band: ad ogni take, il brano assumeva aspetti diversi e interessanti.

Dal momento che avete registrato più takes di ogni brano, avete avuto modo di metabolizzarli ed interpretarli, giusto?
È proprio così. Le prime takes erano più essenziali, giusto per farci l’idea generale di ogni brano; in un secondo momento, David ci invitava ad esprimerci con libertà. Pensa che a un certo punto, quando ho ascoltato le registrazioni, mi sono detto: “mio Dio, mi sa che ho suonato troppo!” E invece era ciò che voleva Bowie.

Bowie voleva che le personalità dei musicisti emergessero…
Esatto, e il risultato finale gli ha dato ragione.

Che genere di input ha dato Tony Visconti nel ruolo di produttore?
Ha creato un ambiente speciale e molto “ispirante”.

Le parole del brano Lazarus sono state piuttosto profetiche: “look up here I’m in heaven/I’ve got scars that can’t be seen…” Sapevate che David Bowie era così malato?
No, è stato uno shock. Molte persone mi hanno fatto questa domanda e quando stavamo registrando il disco, non ho fatto caso a quelle parole. Eravamo tutti nella stessa stanza, impegnati a fare un ottimo lavoro.

Il rullante in ‘Tis A Pity She Was A Whore è straordinario. Come hai fatto a raggiungere quel tipo di sonorità?
Non so dire esattamente cosa abbiano fatto durante il mixaggio, ma ti posso assicurare che non sono stati utilizzati specifici microfoni per la batteria, ma è la stanza ad essere stata microfonata. Sì, probabilmente per ciascun brano ho optato per il rullante, le accordature e i piatti ideali ma, il risultato è stato il frutto della coesione generale: noi musicisti a suonare nella stessa stanza, mentre David cantava. E infatti, ad esempio, puoi sentire la voce di David filtrata dalle pelli dei miei tamburi, o il mio rullante filtrato dal suo microfono per la voce.

Era stata presa in considerazione l’idea di un tour?
No, mai. David non ne faceva da dieci anni e non ne aveva organizzato uno nemmeno dopo l’uscita di The Next Day (2013), quando sarebbe stato il momento ideale per farlo. Eppure non lo ha fatto...

In generale, cosa pensi della tua performance in Blackstar?
Sono molto orgoglioso del mio lavoro e onorato di aver preso parte al progetto. Avrei tanto voluto che David fosse qui con noi a condividere questo grande risultato… So che ha fatto in tempo a percepire l’ottima risposta del pubblico dopo l’uscita del primo singolo. Io so che questa collaborazione rimarrà il punto più alto della mia carriera. Si dice che David, con questo disco, abbia voluto lasciarci un regalo e io non riesco proprio a vederla diversamente!

I tuoi progetti odierni?
Ho un quartetto jazz con cui suoniamo musica di mia composizione. L’estate scorsa è uscito Family First, un disco che ci ha fornito ottimi riscontri e l’input per continuare a girare. [Il disco è uscito lo scorso giugno 2015 per Beat Music Production, l’etichetta discografica dello stesso Guiliana] Questa estate, a luglio, sarò invece impegnato a girare in Europa in trio con Brad Mehldau e John Scofield: due musicisti tra i miei favoriti in assoluto!

Te la senti di inviare un messaggio ai giovani batteristi?
Siate onesti con voi stessi e fate in modo che fare musica sia il vostro motivo d’orgoglio e quello degli altri per cui suonate. Purtroppo non ho consigli saggi e speciali che possano aiutarvi a costruire una carriera, ma posso dirvi che esiste un sentiero per la felicità. Cercate di trovare voi stessi su quel sentiero, unitamente alle buone persone e di buona arte… E’ ciò che sto facendo anch’io sin dal giorno in cui ho iniziato: andare avanti riconoscendo e ricercando il valore dell’arte.

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