BILL BRUFORD, The Talking Drum – seconda parte

Eugenio Palermo 24 dic 2022
[La prima parte dell’articolo è stata pubblicata il 26 novembre 2022. La trovi qui, tra le pagine del portale]
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Dopo un album divino come “Close To The Edge” (1972) Bill Bruford realizza che la band (gli Yes) ha esaurito le sue carte migliori e nulla si potrà fare se non spegnersi o ripetersi. Ripetersi. Che orrore…
E poi Bruford è stanco dell’esasperante pignoleria del suo sodale ritmico, Squire. Non ne vuole più sapere dei suoi ostentati ritardi, o di levarsi dal divano alle tre del mattino e vederlo smanettare ancora con le manopole del suo basso. Basta. Anche se questo significa mollare metà delle royalties di “Close To The Edge” per il sostituto Alan White e rinunciare alle strade lastricate d’oro che gli Yes paiono avere davanti.

Libero da quella gabbia di teste calde, Bill ripensa a quella sciabolata di luna che l’ha frastornato allo Speakeasy, tre anni prima.
Robert Fripp, reduce dall’acid jazz algido e pretenzioso di “Lizard” e da quello acquatico e trasognato di “Islands” (due capolavori), ha visto la sua band disintegrarsi per la seconda volta in due anni (l’ex Greg Lake raggiunge Emerson fondando gli ELP) ed ora è alla ricerca dei tipi giusti con i ...
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quali seppellire definitivamente i Crimson degli esordi ed iniziare un percorso completamente diverso e sperimentale. Bill è sicuramente il tipo giusto, come Fripp un intellettuale ansioso di nuove sfide.

KING CRIMSON – 1972
Strana coppia la loro, un amore-odio che porta Fripp a definire Bruford come un artista dalla disciplina classica, dotato di creatività jazz e temperamento rock, per sciogliere poi la band due volte. Bruford invece ricorda Fripp come cruciale per la sua crescita ma anche quanto fosse in parte Stalin, in parte Gandhi, in parte De Sade, e i Crimson la sua casa spirituale, anche se con un letto di chiodi, per venticinque anni.

Nel settembre del 1972 Bruford trasloca dunque il suo kit (un mix di tamburi Ludwig e Hayman e piatti Paiste) nella Corte di Mr. Fripp. Insieme a lui l’ex Family John Wetton (basso e voce), Jamie Muir (percussioni) e David Cross (violino). È la lineup migliore dei Crimson e, per quanto si brucerà nello spazio di due anni, produrrà il loro disco migliore: “Red”.

Prima però c’è il debutto sconcertante di “Lark’s Tongue In Aspic” (1973) e le schegge impazzite di “Starless Bible Black” (1974). Dischi di gran portata, ma persino flosci se paragonati agli asteroidi che divengono dal vivo, perché questi Crimson sono prettamente una live band forsennata. Una trilogia seminale, la palla di vetro dove ascoltare Melvins, Tool, Mastodon, Mr Bungle, Kyuss, Nine Inch Nails, Dillinger Escape Plane, Don Caballero, Mars Volta, Voivod, Smashing Pumpkins, Nirvana, Slint, Swans. Il Re è morto, evviva il Re.

Le contorsioni jazz e l’imponenza sinfonica vengono abbandonate per immolarsi in un suono desertico, dissonante, crudo, tagliente, fratturato, frutto di jam session rabdomantiche che mandano a quel paese le costruzioni razionali ed edoniste del progressive. Del resto, i contemporanei manierismi compiaciuti di ELP, Yes e Genesis sono quanto di più alieno dalla lacerata avanguardia Cremisi.
“Cosa accadrebbe se le radici nere ed elettriche di Hendrix interpretassero il sistema armonico tonale europeo dei quartetti d’archi di Bartok e Stravinsky?” si chiedeva nel 1967 il giovane agente immobiliare Fripp. “Lark’s Tongue in Aspic è la risposta del 1973. [Trent’anni dopo, furbescamente i Muse “sorprenderanno” e conquisteranno le masse mescolando Nirvana e Prokofiev]

CRIMSON MOOD
I Crimson non sono più una band, sono un modo d’intendere la musica, modellato d’ora in avanti sugli input del suo mastermind. In quanto a Bruford, saranno decisivi i sei mesi passati gomito a gomito con Muir, autentico agente del caos, il cui stile anticonvenzionale e terroristico reindirizzano l’approccio dello stesso Bruford.
Muir è un matto duro, rimprovera Bruford di essere narciso e autoreferenziale. Un giorno stende sul pavimento di casa sua una svariata quantità di sonagli, shaker e altri giocattoli, accende un registratore e lo sfida ad usarli per jammare insieme. Bill capisce, Jamie ha dannatamente ragione: è la tecnica che si deve piegare alla musica. È il musicista ad essere al servizio della musica. Ma questa, prima di tutto, deve essere ben presente nella sua anima. Nei Crimson Bill si rende conto di poter fare tutto, o almeno fin quando Fripp non se ne accorga. Lo capisce quando sente per la prima volta montare su, da quelle jam possedute, le vibrazioni tese ed aspre delle future “Lark’s Tongue Aspic I e II” fino a far esplodere la sala prove. Sì, i King Crimson sono la scelta artistica migliore. L’amore per la Mahavishnu di Cobham trova finalmente sfogo.
Infatti, se in precedenza la tonalità era data dal Mellotron drammatico o dai barriti di sax, ora è proprio l’aspetto ritmico ad essere predominante, con il tandem Bruford-Muir autentico think-tank percussionistico, reso ancora più spesso e magmatico dal basso imbufalito dell’indimenticato John Wetton.
La tempesta di sabbia di “Talking Drum” (traccia strumentale su “Lark’s Tongue Aspic”, 1973) è un miraggio nel deserto che sintetizza il nuovo corso dei Crimson. Il jazzista esuberante e presuntuoso, dallo swing leggero e fantasioso, si è trasformato in un groove master ermetico dal timing eccezionale, meravigliosamente intrecciato con il rombare effettato di Wetton: “un muro di mattoni volanti”, li definisce Fripp.

Anno 1974: il successivo “Starless And Bible Black” (citazione da una poesia di Dylan Thomas, ad indicare il buio biblico di una notte senza stelle) è ancora più improvvisato. Schizofrenie acidissime e sospensioni rarefatte, brandelli di liricità in un mare di groove abrasivi che riempiono il silenzio e non lo sommergono. Muir ha mollato improvvisamente i Crimson, un bisogno irrefrenabile di spiritualità (proprio lui, performer che sul palco s’arrampicava sugli amplificatori, sputava sangue finto e scagliava catene) lo porta a diventare monaco buddista e ad abbandonare la musica. Bruford ne rileva il ruolo: i mantra sghembi di “We’ll Let You Know”, “Fracture” e della titletrack, e i loro immensi duetti con il basso distorto di Wetton, sono schianti continui di monoliti. Ora che Muir se n’è andato, c’è David Cross (violino) nella band.
A questo punto però qualcosa si rompe. È passato solo un anno e mezzo, ma Fripp sente già la band ad un binario morto, paradossalmente antiquata rispetto ai tempi che vede stagliarsi all’orizzonte. Che la facciano gli altri la parodia di sé stessi.
È il rovescio della medaglia di chi è nato per fare sempre qualcosa di diverso, per non suonare mai ciò che ha suonato prima. C’è stanchezza, c’è insofferenza. La band entra in studio già morta. Fripp è apatico, Wetton e Bruford tirano il carro anche per lui. Con queste premesse poteva uscire solo un disastro. Invece sarà il disco più innovativo e pesante della band.

RED – 1974
Registrato agli Olympic di Londra nell’estate del 1974, “Red” è l’epitaffio dorato della più influente e avanguardistica incarnazione del laboratorio King Crimson, registrato come trio (Fripp/Wetton/Bruford) ma con i contributi al sax degli ex McDonald e Collins, del fresco di licenziamento David Cross al violino e di session veterani come Charig (cornetta) e Miller (oboe). Collerico, drammatico, livido, minaccioso, ansioso, con il suono più scheletrico, ruvido e torbido, i riff più tortuosi e grossi e l’atmosfera più spaventosa e parossistica possibile, il disco è un ponte fra musica contemporanea ed heavy metal. Cinque tracce opprimenti, che convinceranno Kurt Cobain [Nirvana] a dire che “Red” è il disco più importante del rock. Di sicuro, è la gemma più preziosa di una discografia fino ad allora trapuntata di soli capolavori. Grunge, post-rock, math-rock, crossover, nu metal, stoner, sludge: chi cerca gli anni Novanta li può trovare negli umori ribollenti dei quaranta minuti epocali di “Red”.

La titletrack è uno strumentale rutilante e metallico che incede mastodontico e nervoso, cercando vendetta con il suo celeberrimo e sinistro riff, accentuato e incupito dal pattern infuocato e viscerale che Bruford sviluppa intorno al tom e ride. “Fallen Angel” (seconda traccia del disco) si libra delicata stemperando l’insostenibile tensione che ancora echeggia, con un Wetton principesco con la sua voce da bluesman coraggioso e il suo basso tuonante, almeno fino alla seconda strofa dove poi precipita in una spirale di disperazione senza fondo, tempestata dai rumorosi ‘brufordismi’ che ne acuiscono l’epicità senza affossarla.

“Providence” è il frutto di una cacofonica e torturata jam live, esperimento audacissimo denso di tensione strisciante da film dell’orrore e allucinazioni ‘barrettiane’, delirate dal violino infestato di Cross e dal basso drogato di Wetton, fino all’ingresso nervosissimo di Bruford che rompe il climax mentre le lame di Fripp lo affettano.

“One More Red Nightmare” è il deflagrare di un altro storico, spaventoso e claustrofobico riff. Il consueto Bill’s-Bonk è diventato una sassata assassina che cadenza i suoi poliritmi disseminati da un Bruford che utilizza quel mitico piatto rotto marchiato ZilCo recuperato dalla spazzatura dello studio, e che ama all’istante per quel suono trash, triste e sordo. Forse il tratto più caratteristico dell’album. Un incedere pachidermico che si fa funky delirante per poi essere spezzato dalle pause da infarto di Bruford, sempre più intrecciato al Fender di Wetton slappato a gran volume.

“Starless” chiude degnamente il disco e il sipario per i Crimson, indiscutibilmente la loro più bella traccia di sempre. Torna il drammatico romanticismo sinfonico del Mellotron Cremisi, la Gibson di Fripp struggente come mai più e la voce stentorea e da brividi di Wetton, musicista gigantesco e uomo fragile, con un Bruford eccelso al servizio di un pezzo-monumento.
Abbozzata da Wetton per essere la traccia che titola l’album precedente (“Starless And Bible Black”), viene dapprima scartata da Fripp e Bruford, quindi recuperata, rielaborata dalla band ed ampliata con il titolo abbreviato in “Starless”. La sezione centrale è un altro corridoio oscuro da attraversare a tentoni in un crescendo d’intensità snervante, esasperata dalle meticolose e inquiete timbriche di Bruford, fino all’esplosione dell’adrenalina accumulata in un 13/8 di schegge metalliche. Dopo non seguirà nessun tour.

CALA IL SIPARIO
Mentre gli Yes esagerano nel maestoso barocco di “Tales From Topographic Oceans” (1973) e i Genesis danno sfogo alla loro grandeur teatrale con “The Lamb Lies On Broadway” (1974), Fripp saluta tutti e si ritira in comunità per due anni a studiare l’esoterista Gurdjeff. Tornerà rigenerato per griffare il Bowie berlinese di “Heroes” (1977). Il vulcanico Bruford si dividerà invece fra il prog degli UK, la fusion e lo studio della Simmons, la prima batteria elettronica messa in commercio. Le loro strade si incroceranno ancora, nelle successive incarnazioni dei Crimson, fino a “Thrak” (1995), l’undicesimo album.

Seguiranno “The Construkction Of Light” (2000) e “The Power To Believe” (2003) ma dietro il drumkit in quei casi ci sarà Pat Mastelotto. Tredicesimo album targato King Crimson, proprio “The Power To Believe” chiude il sipario di una piece destinata alla storia.

BILL BRUFORD – QUOTES

“I King Crimson sono l’unico gruppo che suona in 17/16 e si può permettere hotel decenti!”

“Robert Fripp era l’intelletto superiore con una lingua d’argento, in possesso di certa conoscenza arcana o forse occulta di cui il resto di noi non aveva privilegio. Era l’Uomo con un Piano, ma siccome il piano non te lo rivelava, diventava necessario un certo lavoro di intuizione. Avrei dovuto capire che sarebbe stato un viaggio interessante quando mi mise in mano il primo degli unici due regali che mi ha fatto in circa trentacinque anni, ovvero un libro intitolato "Iniziazione all'ermetica". Non mi è stata data una set-list quando mi sono unito alla band, ma una lista di letture: Wicca, Gurdjeff, cambiamenti di personalità, tecniche di bassa magia, piromanzia… Tutto questo sarebbe stato più di tre accordi e una pinta di Guinness…”

“Sono d’accordo con Fripp quando diceva che non ero pronto quando sono entrato nella band, ma dopo un anno con il percussionista più anziano e più saggio Jamie Muir, sono diventato pronto. Se non mi fossi unito alla band, avrei avuto minori probabilità di sviluppare qualsiasi potenziale che fosse emerso successivamente, e per questo devo ringraziare i King Crimson. Robert ha sempre insistito sul fatto che la band era ‘un modo di fare le cose’ e che lui altro non era che ‘il collante che la teneva insieme’…”

“Quando si è trattato di salire sul palco era tutto molto reverenziale e tutto molto silenzioso. Poi questa bestia potente e onnipotente si è srotolata. Non era come nient’altro, nessuno sapeva cosa diavolo fosse questa cosa… I testi erano diversi, il comportamento dei musicisti era diverso, il suono era diverso, e c’era una luce stroboscopica che creava una scena dura che congelava tutti. Dopo quella notte, il mio pensiero fu di lasciare gli Yes ed entrare nei King Crimson…”

“I batteristi non dovrebbero riciclare le idee, è un approccio regressivo. Devono combattere questa tendenza, devono stare fuori dai solchi già tracciati, cambiare musicisti, cambiare idee…”

“L’obiettivo è l’unicità. Devi connetterti con il tuo battito cardiaco, la tua impronta digitale, e portarlo nella musica. Può non piacerti il mio modo di suonare la batteria ma lo riconosci come Bill Bruford. Prendere o lasciare!”

BRUFORD GEAR 1975
E’ un kit compost da un mix di tamburi Hayman e Ludwig, in finitura Natural, completato da una miscela di piatti Paiste, oltre a woodblock, campanacci, piastre in metallo. Pelli: Remo Ambassador Coated (top), Diplomat (bottom) – Bacchette: Ludwig 5A e 5B.

14″x 6,5” Ludwig Supersensitive chrome plated – rullante
12” x 8” Hayman – tom
14″ x 14″ Hayman – floor tom
22″ x 14″ Ludwig – cassa
15″ Sound Edge Hi-Hats 2oo2 Series
16″ Thin Crash Formula 602 Series
17″ Heavy Formula 602 Series
20″ Medium Ride con rivetti Formula 602 Series
14”, 16”, 24” Gong intonati
ZilCo (o Zilket) Standard Ride
4”, 6”, 8” Accent 2oo2 Series
2” Finger Cymbals Formula 602 Series

BILL BRUFORD IN BREVE
Britannico, classe 1949, William Scott Bruford è tra i batteristi protagonisti della scena progressive sin dagli anni Sessanta. Numerose le formazioni in cui porta il suo drumming che ha fatto scuola; tra esse Yes, King Crimson, Gong, UK, Brand X, Earthworks…

Approda sulla scena musicale nel 1969 dietro i tamburi degli Yes, con cui registra album memorabili, tra cui “The Yes Album” (1971), “Fragile (1971) e “Close To The Edge” (1972).

Nel 1972, sorprendendo tutti e tutto, abbandona gli Yes al culmine del loro successo ed accetta l’invito di Robert Fripp di unirsi ai King Crimson, con i quali registrerà capitoli del prog passati alla storia. Su tutti, “Lark’s Tongue In Aspic” (1973).

Intorno alla metà dei Settanta Bruford instaura collaborazioni con numerose band, inclusi Genesis, Gong e National Health.

Nel 1977 nascono gli UK, la prog/jazz band messa in piedi dallo stesso Bruford e e John Wetton. [Bruford e Wetton sono la sezione ritmica dei primi Crimson]
Poco dopo è la volta della Bruford Band, il sestetto jazz/fusion in cui militano tra gli altri, Jeff Berlin (basso) ed Allan Holdsworth (chitarra). Quattro gli album pubblicati dalla band fra il 1977 e il 1980.

Alla fine degli Ottanta prende il via il progetto Anderson-Bruford-Wakeman-Howe (ABWH) inteso a percorrere le strade di un prog rock ricercato e raffinato. Il tutto culmina nell’omonimo album del 1989 ben accolto da pubblico e critica.

Nel 1998 Bruford fonda con Tony Levin (basso) i Bruford Levin Upper Extremities una lineup marcatamente rivolta alla sperimentazione in cui ci sono anche David Torn (chitarra) e Chris Botti (tromba).

Nel 1986 Bruford mette insieme i suoi Earthworks, progetto di jazz/fusion con una lineup aperta alle collaborazioni più diverse. Nel corso del tempo intervengono infatti numerosi raffinati musicisti, tra cui Mick Hutton e Tim Harries (contrabbasso), Django Bates (piano), Iain Ballamy e Tim Garland (sax).

Nel 2009 Bruford pubblica “The Autobiography: Yes, King Crimson, Earthworks And More” con cui, di fatto, si ritira dalle scene.

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