Una carriera a dir poco incredibile, non ci sono altri termini per descriverla ed è lo stesso Alan White ad ammetterlo. Lui, che durante la nostra video-chiamata si gira più volte per osservare rapito le stampe degli album che l’hanno visto protagonista, non sa bene come spiegare le straordinarie cose che la sua vita gli ha regalato... E quindi ci proveremo noi.
Classe 1949, 72 anni d’età, la maggior parte dei quali spesi dietro il suo drumkit intento a sperimentare con suoni, brani e composizioni. Come è lui stesso a raccontarci, ancora oggi Alan White vive, respira e si ciba costantemente di musica, incapace di vedere la fine di quel processo di apprendimento e sperimentazione che porta avanti dal primo in giorno in cui ha battuto il primo colpo su un tamburo. 49 anni con gli Yes potrebbero essere abbastanza per colmare un palmares già di per sé impressionante, ma così non è, ed infatti a ciò si aggiungono album e tour con Joe Cocker, Billy Preston, Paul Kossoff, Ginger Baker, The Ventures… senza contare George Harrison, Eric Clapton e John Lennon.
Alle spalle di Alan White durante la nostra video-chiamata si vedono chiaramente le fotografie di quando, ancora giovanissimo,
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all’inizio dei ‘70 era intento a stendere quella che sarebbe diventata la struttura ritmica di Imagine. White parla con affetto di quella esperienza al fianco di Lennon, così come della magia creatasi in studio accanto a George Harrison, Phil Spector ed Eric Clapton per il capolavoro chiamato "All Things Must Pass".
Tra una cosa e l’altra, parlando con White si rischia quasi di dimenticarsi che oltre a tutto questo egli ha contribuito a definire la storia del prog rock con gli Yes, i quali tornano quest’anno con il loro primo album in studio dopo la morte di Chris Squire. Un album importante, il nuovo The Quest, [in uscita il 1° ottobre 2021 su OutMusic/Sony] che ribadisce, ancora una volta, la passione di Alan White per la batteria, così come la sua insaziabile attitudine a mescolare le carte in tavola fino al far emergere qualcosa dal sapore diverso ma riconoscibile dai più.
Di tutto questo, e molto altro, abbiamo parlato con Alan White in un’intervista che, e di questo siamo già certi, si guadagnerà un posto d’onore nei nostri archivi. Ecco di seguito quello che lui ci ha raccontato.
Ciao Alan, per noi è un grandissimo onore averti tra le nostre pagine. Come stai? Come vanno le cose? Sto bene, sono una persona fortunata e anche in un periodo come questo non posso lamentarmi. Abito nello stato di Washington e tutto qui è molto tranquillo, quindi sto bene e posso contare su una situazione generale abbastanza sicura. Il che non è poi così scontato al giorno d’oggi.
Prima di questa intervista siamo andati a scandagliare i nostri archivi per capire quando fosse stata l’ultima volta che sei apparso sulla nostra copertina. La prima volta è stato nel 1988 con gli Yes, e nel 1996 la seconda volta, sempre con gli Yes... 25 anni, Alan! Dove sei stato per tutto questo tempo? Penso dovrete aiutarmi a capirlo! [ride] Scherzi a parte, proprio l’altro giorno un amico mi faceva notare che con il 2021 sono 49 anni dal giorno in cui sono entrato a far parte degli Yes... Soltanto pensarci mi lascia abbastanza incredulo.
Però dopo quasi 50 anni siete ancora qui, intenti a fare musica... Non è stupendo? È stato un viaggio molto lungo, ma la cosa che mi colpisce più di tutte è che ancora oggi riesco a trovare emozione in quello che faccio. Con gli Yes non riesco mai a dire di no, perché è una continua sfida, e questo mi permette di nutrire il mio amore per la musica e per il mio lavoro. È una fortuna, ne sono consapevole, non è assicurato che succeda dopo così tanti anni spesi a suonare con la stessa band. A conti fatti, quindi, questi 50 anni sono volati, ed oggi mi ritrovo qui intento a fare quello che ho sempre sognato di fare, ovvero suonare, scrivere e registrare musica.
A proposito del fare musica, The Quest è il nuovo album firmato Yes. Come è andata con la scrittura e registrazione di questo lavoro? Il Covid via ha obbligato a scelte diverse? Purtroppo sì. Inevitabilmente anche la nostra routine lavorativa è cambiata, questa volta. Viviamo tutti in luoghi diversi e così non è stato possibile viaggiare per riunirci in studio di registrazione e scrivere il materiale insieme. Abbiamo optato per parecchie sessioni online ed in parte devo dire che anche per me è stato interessante vedere la scrittura dei brani da una posizione diversa. Anche la registrazione dell’album è andata in maniera molto diversa dal solito ma non è stato tutto negativo, anzi, direi proprio il contrario.
Questo perché non avete potuto registrare tutti insieme nello stesso studio? Sì, esattamente. Io e Billy [Sherwood] abbiamo registrato basso e batteria in California, a Los Angeles, mentre gli altri componenti della band hanno registrato in Inghilterra. È stata la prima volta da quando sono negli Yes che un album è stato registrato in questo modo, ma vi dirò la verità: non mi è dispiaciuto del tutto. Ovviamente, quando possibile, sono sempre per il registrare insieme e lavorare insieme in studio, credo che il contatto umano possa far scaturire idee che altrimenti non potrebbero nascere... Ma è anche vero che questo è l’unico modo che io abbia mai conosciuto sinora. Registrare in remoto mi ha dato la possibilità di vedere le cose da un’altra posizione, un po’ come fare un passo indietro e provare a riconoscere dettagli diversi della nostra musica.
Lavorare in questo modo ti ha portato ad approcciare il tuo drumming in maniera diversa? Credi di aver scritto delle parti che altrimenti non avresti ideato? Non saprei dire se il mio drumming sia stato diverso proprio per questo specifico motivo, ma sicuramente il modo in cui ho ragionato sulla musica è stato diverso. Anche se la tecnologia ci ha permesso di restare in contatto continuo con chi era in Inghilterra, ci sono stati molti più momenti in solitaria durante la lavorazione di questo album. Mi sono confrontato molto con Billy Sherwood, ma essere in due non è come ascoltare un brano con tutta la band e poi parlarne insieme. Pertanto penso di aver preso alcune scelte ed alcune decisioni in maniera più intima.
The Quest non è soltanto il vostro nuovo album in studio, ma è anche il primo album degli Yes dalla scomparsa di Chris Squire. Sappiamo bene quale tipo di amicizia vi legasse e pertanto non vogliamo indugiare troppo su questo frangente, ma ci vuoi raccontare quali sono state le sensazioni date dal lavorare alla musica degli Yes senza di lui? Non è stato facile, non ci girerò attorno in alcun modo. Non è stato bello, e non è stato semplice. Per tutta la band è stata una vera sfida, e per me è stato qualcosa di molto strano da comprendere, perché per 43 anni fare musica per me equivaleva a “fare musica con Chris”. Oltre all’aspetto lavorativo però c’era anche tutto il resto, ovvero un’amicizia durata una vita intera. Anche sapendo quanto importante fosse per la mia vita, soltanto nel momento in cui sono stato privato della presenza di Chris, ho compreso quanto fondamentale fosse. Sul piano musicale fortunatamente abbiamo il miglior sostituto possibile, ovvero Billy Sherwood, che non solo suona in modo molto simile a Chris, ma canta anche in maniera molto simile a quella di Chris. Billy è stato un suo allievo e penso che non avremmo potuto trovare persona più qualificata per sostituire quella che - a tutti gli effetti - è una parte insostituibile degli Yes. In quel senso, siamo stati molto fortunati.
Ogni album degli Yes ha sempre portato con sé nuovi modi di plasmare la vostra formula. Nessun album è mai stato uguale al precedente, e nella vostra carriera avete attraversato molteplici proiezioni. Come definiresti il nuovo corso iniziato con The Quest? Penso che già il fatto che sia possibile definirlo un “nuovo corso”, come avete detto, sia molto interessante. Dopo tanti anni non è facile trovare modi di non ripetersi, soprattutto quando sei riuscito a crearti un mondo sonoro e artistico al quale le persone ti associano in maniera inequivocabile.
Proviamo allora noi a dare una nostra visione. Fin dal primo ascolto, anche grazie a brani come The Ice Bridge o Music To My Ears, questo album pare arrivare all’orecchio più “facilmente”. Si tratta più di una sensazione che di una vera e propria maggiore semplicità delle composizioni, eppure la tracklist è molto più agile di quanto ci si potrebbe aspettare da un album degli Yes. Sei d’accordo? Oh sì, avete fatto centro secondo me. Credo che The Quest sia un album molto più digeribile anche per chi non ha ascoltato tutti gli altri album, o perlomeno anche per chi non è sempre stato attratto dalla musica degli Yes. Ci sono dei passaggi dell’album, e The Ice Bridge è sicuramente uno di quelli, che lo rendono molto affabile. Voi avete detto che arriva facilmente all’orecchio, io esagererei proprio e direi che è un album molto cantabile e molto orecchiabile, quasi easy-listening. A molti queste parole faranno storcere il naso, ma io credo che sia molto bello per una band come la nostra poter arrivare a questo punto della carriera e tirar fuori un album così fluido e cantabile.
In passato hai più volte sottolineato che l’essenza degli Yes non è guardare l’orizzonte ma guardare oltre esso. Questo ha sempre coinciso con il cercare nuove sfide ed il motivarvi a spingervi oltre quello che avevate già fatto in precedenza. Da un punto di vista strettamente batteristico, cos’è che rappresenta una sfida e soprattutto come fai a cercarne sempre di nuove? Bella domanda. Anzitutto penso che la sfida più importante per me, come batterista e musicista, sia sempre stata quella di avere l’atteggiamento giusto. Con questo intendo dire che se da un giorno all’altro io mi fossi seduto sugli allori ad ammirare tutto ciò che di buono avevo fatto con gli Yes, probabilmente sarebbe anche stato il giorno in cui avrei smesso di trovare motivi per migliorare. Sfida numero 1, quindi, cercare di rimanere sempre focalizzati sulla possibilità di migliorare. L’altra grande sfida per il mio modo di vedere le cose è non pensare mai alla batteria come ad uno strumento con una serie di cicli codificati: voglio dire che ci sarà sempre un modo diverso di approcciare il drumming e di pensare a come sfruttarlo in un brano. Serve tenere gli occhi e le orecchie aperti, perché bisogna saper cogliere il momento ed ogni tipo di indizio. Da sempre vivo, respiro e mi cibo di musica, non passa giorno in cui non mi sieda alla mia batteria per suonare qualcosa o per registrare qualche idea... Anche quando non sono al massimo dell’ispirazione mi sforzo e provo a convincermi a suonare, e probabilmente questa è la mia ricetta per trovare nuovi input e nuove sfide da superare. Suonando nascono nuove idee e si scoprono nuovi confini.
Per certi versi quello che dici incarna anche l’idea dietro il termine “progressive”... La penso allo stesso modo. Nel tempo quella parola ha preso significati diversi, ma per me è ancora sinonimo di spingersi oltre i confini e tentare qualcosa là dove altri non hanno osato provare.
Alan, hai suonato con le batterie Ludwig praticamente per tutta la tua vita, e ovviamente le cose non sono cambiate per questo nuovo album, giusto? Giustissimo. Ho perso il conto di quanti sono gli anni in cui suono con le Ludwig! Però ricordo ancora molto bene il giorno in cui mio padre mi regalò la mia prima Ludwig, era un kit bellissimo, e sono felice di possederlo ancora... Che oltretutto è lo stesso kit che ho utilizzato per suonare su Imagine di John Lennon e su All Things Must Pass di George Harrison... Potete capire perché io ci sia molto legato.
Un aspetto fantastico della tua lunga storia con le Ludwig, è che dopo aver trovato il tipo di kit che faceva per te, hai speso una carriera intera a sviluppare il tuo suono e il tuo stile. Molti giovani batteristi oggigiorno, ammaliati anche dall’ampia disponibilità di strumenti sul mercato, ricercano nuovi input e sonorità cambiando spesso il kit, piuttosto che puntare a quell’obiettivo tramite il proprio drumming… Sono tempi diversi, credo che oggi si viva in condizioni economiche diverse. Penso che per quelli della mia generazione fosse abbastanza naturale sognare un determinato strumento e restarci legati per sempre una volta ottenuto. Anni fa non era così semplice potersi permettere una Ludwig, ecco perché il giorno in cui mi venne regalato quel kit è ancora impresso così vividamente nella mia memoria. C’è da dire che sono stato anche molto fortunato, non è detto che la batteria che vedi suonare ai tuoi idoli sia poi la miglior batteria per te. Con Ludwig è stato amore reciproco e questo mi ha permesso di focalizzarmi moltissimo sul mio miglioramento personale, piuttosto che sul continuare a modificare il mio kit. Ad ogni modo sono d’accordo sul fatto che molti musicisti perdano di vista l’esercizio e la sperimentazione a favore dei costanti cambi di strumentazione.
Credi che questo abbia a che fare col periodo in cui hai iniziato a suonare? Non so se è specificamente legato a quello, ma sicuramente ha aiutato molto. Vedete, allora, quando ho iniziato a suonare io, c’era ancora moltissimo da scoprire. Non fraintendetemi, c’è sempre qualcosa da scoprire, ma allora anche le cose che oggi riteniamo tra le più basilari non erano ancora state scoperte o non del tutto scoperte. Il senso di “possibilità” era diverso da oggi. Mi rendo conto che i musicisti odierni devono fare i conti con decadi di musica che hanno già detto moltissimo e per molti versi devono faticare di più…
La sperimentazione però è sempre stata parte integrante del tuo modo di concepire la batteria e la composizione. Probabilmente è qualcosa che ha a che fare anche con il tuo carattere e la tua personalità. Sì, probabilmente è un equilibrio tra molti aspetti. Sperimentare mi è sempre piaciuto, e soprattutto mi piace farlo nei modi più strambi. In passato se qualcuno mi diceva che quello che stavo pensando di fare era assurdo, quello era uno dei complimenti migliori che potevo ricevere. Ad un certo punto della storia degli Yes, non ricordo di preciso quando, mi sono concentrato molto sul tipo di accordature che potevo utilizzare. Dopo moltissimi esperimenti sono finito per avere i floor tom da 18” e da 16” accordati come gli elementi più acuti del kit, mentre i tom più piccoli erano accordati bassissimi. A pensarci ora era qualcosa di assurdo, però mi ha permesso di esplorare suoni molto interessanti, che probabilmente non avrei mai ottenuto in altro modo. Di quel kit ricordo in particolare quanto fosse “melodico”, aveva un che di “lirico” quando si passava dai floor tom ai tom più piccoli. Non mi dispiacerebbe rivisitare quei suoni... Chissà, magari la prossima volta! [ride]
Alan, prima hai citato All Things Must Pass, l’album di George Harrison passato alla storia… Eh sì, un gran lavoro...
Ora quell’album celebra i suoi 50 anni (è stato pubblicato il 27 novembre 1970) e lo abbiamo riascoltato grazie alla colossale ristampa uscita lo scorso agosto. Quando hai fatto quelle registrazioni eri molto giovane, cosa ricordi con maggior affetto di quell’esperienza accanto a Harrison e a molti altri musicisti di gran caratura? Oh, posso dire che ogni momento di quell’esperienza è un bel ricordo. È stato un album così bello da registrare, e non solo perché era stato George Harrison a chiamarmi, ma anche per la situazione generale che si era creata. Praticamente All Things Must Pass è stata un’esperienza collettiva. In studio c’era George e in pianta stabile la band di Delaney & Bonnie ed Eric Clapton, mentre Phil Spector era nella sala di regia... Pare surreale a ripensarci oggi. L’atmosfera di quei giorni era incredibile, c’era un gran senso di libertà e creatività attorno a quelle session, che non penso di aver mai più percepito... Forse soltanto con John Lennon, pur se non era stata esattamente la stessa cosa. All Things Must Pass è uno degli album che porto nel cuore con grande affetto.
Lo sai che questo album basterebbe da solo a fare la carriera di un musicista? Alle volte ancora non ci credo. Spesso, mi metto qui nel mio studio a guardare le immagini e i poster dei dischi in cui sono stato coinvolto... E non è facile neanche per me realizzare che anche io sono parte di quei lavori. Fidatevi, non ho mai dato per scontato nulla, sono consapevole della mia fortuna e l’ho sempre guardata con rispetto, ricordando a me stesso che le cose sarebbero potute andare molto diversamente nella mia vita.
Beh, diciamo però che quel posto, anzi quei posti, te li sei meritati. Se Harrison e Lennon (così come molti altri artisti) si sono affidati a te, devono aver avuto i loro buoni motivi… Vi ringrazio, è un gran bel complimento.
A proposito di lavori che valgono un’intera carriera, la tua prima Ludwig di cui parlavi, è appunto quella che dal 1971 generazioni e generazioni di persone ascoltano su Imagine. Più che un brano si tratta di un vero e proprio manifesto dell’arte, in grado di ignorare tempo e spazio... Durante le registrazioni di quell’album avevate la minima percezione di quello che sarebbe successo in seguito? No, credo che nessuno fosse minimamente pronto ad assorbire la devastante potenza di quello sarebbe accaduto dopo. Anche in quel caso il clima delle registrazioni è stato decisamente piacevole, un sacco di relax in studio. John e Yoko erano persone deliziose ed io mi ero sentito parte del progetto e della famiglia che si era creata in studio. Penso che nessuno avrebbe potuto prevedere il fenomeno di Imagine, e probabilmente la grandezza di quel brano, ancor più che nell’album, risiede nella sua estrema semplicità intellettuale.
Alan, prima di lasciarti vogliamo chiederti qualcosa di un musicista con il quale hai lavorato ma che spesso viene ignorato nelle interviste che ti riguardano: stiamo parlando di Joe Cocker, una delle voci più iconiche della popular music. Ci racconti qualcosa di com’è stato lavorare al suo fianco? Oh wow, avete ragione, pochissime volte mi è stato chiesto di Joe. Non mi sorprende siate voi a farmi questa domanda però, perché ricordo che Joe in Italia era letteralmente venerato. Ho suonato con lui durante il tour di Dog, Men & Englishmen... Abbiamo girato l’Europa nel bus per mesi, e ricordo quanto è stato divertente passare del tempo con quella band. Joe era un uomo gentile, anzi molto, molto gentile, spesso timido, e per quel tour aveva messo in piedi una band gigantesca! Non c’ero soltanto io alla batteria, ma anche Jim Keltner. Proprio Jim mi ha insegnato moltissimo riguardo al suonare in una band con due batteristi e, in generale, mi ha insegnato moltissimo sullo stare al mondo da musicista... Caspita, mi avete fatto riaffiorare dei ricordi fantastici, con Joe mi sono divertito moltissimo.
Allora prendiamo la palla al balzo e chiudiamo l’intervista con questo bel ricordo. Alan, ti siamo estremamente grati per averci dedicato del tempo, è stato un onore ed un piacere. Grazie a voi, è stata una gran bella chiacchierata, ve lo dico sinceramente.
Non facciamo passare troppo tempo da qui alla prossima volta, ok? Assolutamente.
ALAN WHITE gear di Paolo Sburlati
Non è così semplice trovare un batterista versatile come Alan White! Una sera, all’improvviso, John Lennon lo chiama al telefono e lo invita a suonare con la Plastic Ono Band all’indomani, al Toronto Rock&Roll Fest. Provano i brani in aereo – Alan, John, Yoko Ono, Eric Clapton e Klaus Voorman – e quel concerto diviene un disco dal successo enorme: Live Peace In Toronto (anno 1969). Milioni di copie vendute. Un evento memorabile.
Nel 1970 Alan White registra Instant Karma, il celebre brano targato Lennon/Ono, e nel 1971 il leggendario Imagine, quinto album della produzione solista di Lennon. A quel punto Alan White è un richiesto sessionman. George Harrison lo chiama per All Things Must Pass (1970) in cui appare l’immortale singolo My Sweet Lord: un ulteriore album passato alla storia. Poi sarà la volta degli album di Joe Cocker [White finisce anche in Mad Dogs & Englishmen il film-documentario del 1971 dedicato alla vita di Cocker, diretto da Pierre Adidge], degli Air Force di Ginger Baker, dei Ventures, di Terry Reid, di Chris Squire… Nel 1972 proprio Squire lo invita ad entrare negli YES dopo che Bill Bruford ha lasciato: “o accetti, o voli dalla finestra!”, gli intima più o meno scherzosamente allora. White accetta e resta con la leggendaria prog band britannica per 50 anni, siglando col suo drumming 22 album di studio, l’ultimo dei quali è l’atteso The Quest, in uscita il 1° ottobre 2021.
Alla marcata fedeltà di Alan White agli Yes, si aggiunge anche quella al marchio di tamburi Ludwig: un kit sagomato in base alle esigenze di ogni disco e tour. Sono troppi da elencare in questa sede…
Alan White è conosciuto per i suoi assoli di batteria così particolari, quando all’epoca infila dei tubetti di gomma nei badges dei tamburi e ci soffia dentro gonfiando le pelli. Risultato? Ottenere una sorta di effetto da timpano sinfonico. Tutto è particolare allora di White, inclusa la sua Ludwig che dapprincipio è una Super Classic con cassa 22”, tom 13” e timpano 16”, a cui ci ha aggiunto un ulteriore tom da 13”. Finiture esterne differenti, ma che importa allora?
Subito dopo White utilizza una Ludwig Stainless Steel con i fusti in acciaio con gli stessi diametri della batteria precedente, e con i due tom da 13” frontali: l’elemento estetico delle batterie di Alan White anche negli anni successivi. Successivamente prende ad utilizzare parecchi tom, assemblando la seguente configurazione: cassa 16”x22” e sei tom 7”x8”, 8”x10”, 10”x12”, 11”x13”, 12”x14”, 14”x16”. Grazie al successo planetario degli Yes, Alan White diviene un endorser Ludwig preziosissimo. Come dicevamo sopra, un nuovo kit Ludwig per ogni album e tour degli Yes, ed un sempre maggior numero di tom di ogni diametro; addirittura anche un paio di timbales.
Negli anni Settanta Alan White non disdegna l’utilizzo di alcuni tom aggiuntivi North, quelli fatti a tromba, ma è più una questione estetica che una reale necessità timbrico/sonora. Successivamente White aggiunge al suo kit un paio di Rototoms Remo da 14” e 16”; strumenti che sceglie per il loro suono aperto ed aggressivo, come testimonia il live Yesshows del 1980. In quanto al rullante, White fedele al Ludwig Supra-Phonic da 6,5”x14”, sia nella versione col fusto in acciaio, che in bronzo martellato. Con gli anni Ottanta White non disdegna nemmeno l’utilizzo dei pad elettronici ed è così che ne aggiunge alcuni a marchio Yamaha.
Per quanto riguarda i piatti, Alan White lega indissolubilmente il suo nome al marchio Zildjian, utilizzando una configurazione che si mantiene quasi invariata nel corso del tempo: un Ride da 20”, tre Crash (15”, 16” e 18”), uno Splash da 10”, un China da 20” ed un Hi-Hat da 14” (dapprincipio in versione Heavy e poi in versione Flat Bottom). Col passare del tempo White aggiunge un set di Cup Chimes, uno di Crotales intonati e una tastiera per i suoni campionati.
The Quest il nuovo album degli YES Si intitola The Quest il nuovo album degli YES, leggende del prog rock che non necessitano di presentazioni. 11 tracce che lasciano spazio agli interventi solistici e alle differenti orchestrazioni pensate per arricchire ed implementare il sound generale… L’album uscirà il 1° ottobre 2022 su Inside Out Music/Sony Music.
Steve Howe (guitar) – Alan White (drum) – Geoff Downes (key) – Jon Davison (lead vocal), Billy Sherwood (bass) – www.yesworld.com
16 maggio 2022 – Teatro Dal Verme – Milano 17 maggio 2022 – Teatro della Conciliazione – Roma 18 maggio 2022 – Gran Teatro Geox – Padova