Se Hollow Bones fosse il nuovo disco dei Black Keys, non ci sarebbe nulla da obiettare. Anzi, sarebbe un signor disco: un netto ritorno ai fasti di El Camino e alla dirompente potenza mainstream che appena cinque anni or sono fece decollare il duo di Akron (Ohio) verso il successo planetario. Hollow Bones è invece il quinto album in studio dei Rival Sons e rappresenta, per il quartetto capitanato dal cantante Jay Buchanan, un’ulteriore fase di transizione - rispetto agli inizi di carriera - verso lidi musicalmente ancora non troppo a fuoco. Certo, lo spirito e i riff restano energici e ancorati al consueto, sano e tanto amato “seventies-hard-blues-style”; ad essere cambiato è però il suono della formazione di Los Angeles. Se già infatti con Great Western Walkyrie (2014) avevano intrapreso una direzione più commerciale, Hollow Bones ne consolida intenzioni e coordinate spazio/temporali. La ruvida immediatezza, l’urgenza creativa e in generale la freschezza di Pressure And Time (2011) e Head Down (2012) vengono meno a favore di un pugno di tracce assai simili per colore, andamento, struttura, pienezza di arrangiamenti e (copiose) sovraincisioni.
Nel lotto si distinguono Black Coffee, un torrido blues intriso di umori e cori southern, l’orecchiabile
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e diretta Pretty Face e la titletrack, Hollow Bones (suddivisa in Part 1 e 2). Non convincono invece Thundering Voices (il cui riff di chitarra ad opera di Scott Holiday è ben più che un devoto omaggio a quello di The Girl I Love She Got Long Black Wavy Hair dei numi tutelari Led Zeppelin), la melensa ballad titolata All That I Want in coda al disco e Baby Boy, piacevole ma così smaccatamente pop nelle aperture strumentali, da ricordare - la voce soprattutto - addirittura i ritornelli da stadio dei Coldplay di Paradise.
I Rival Sons sono Jay Buchanan (lead vocal), Scott Holiday (lead guitar), Dave Beste (bass), Mike Miley (drum).
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