Dopo l’Ep del 2015 e il loro debutto sulla scena prog metal, i Paralydium continuano il loro percorso senza troppa fretta. Il quintetto svedese pubblica soltanto nel 2020 il primo full-lenght, Worlds Beyond, seguito oggi dal nuovo Universe Calls.
I Paralydium nascono nel 2015 da un’idea di John Berg, chitarrista visionario con la passione per riff potenti e groove ipnotici, il gusto per la melodia e per le atmosfere cinematiche, e una ispirazione che tanto deve a Symphony X e Dream Theater. Berg allora ha in mente una band e, intenzionato a mettere mano alla composizione di un Ep con il moniker Paralydium Project, chiama al suo fianco i colleghi musicisti che daranno forma al quintetto svedese, che più tardi snellirà il nome in Paralydium. Quell’Ep esce nello stesso 2015 e, di fatto, sancirà l’ingresso della band nella scena prog metal. La loro musica si nutre di atmosfere epiche ed oniriche e l’obiettivo è quello di distillarne l’essenza perché sia il carburante necessario al viaggio che sono intenzionati a fare, trascendendo i confini spazio/temporali.
Se il precedente album, Worlds Beyond (2020), sfoderava un cangiante amalgama di brani, fraseggi e riff audaci ed aggressivi, con il nuovo Universe Calls (Frontiers Music)
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i Paralydium ammorbidiscono il tiro, e lo fanno con sette brani che, come le tessere di un puzzle, ricercano la perfezione degli incastri per rivelarne l’immagine di fondo. Anticipato dal singolo Sands Of Time, il nuovo album non manca certo degli ingredienti della ricetta-base firmata Paralydium, riff e armonie all’unisono, lunghi assoli ad esplorare la perizia tecnica dei componenti della band e partiture complesse a volontà, ma questa volta c’è spazio anche per i momenti acustici e di relax, là dove melodie delicate si uniscono alle atmosfere cinematiche tanto care a Berg, per un crescendo di emozioni dentro un viaggio di musica scandito da pathos, ritmi e groove.
Georg Egg Härnsten (classe 1987) contribuisce alla composizione dei testi di Universe Calls ma, soprattutto, semina fra le tracce del disco tutta la sua perizia dietro i tamburi, la sua passione per i fill sincopati e per le parti più complicate, il suo istinto audace e la capacità di suonare per la band, offrendo il porto sicuro in cui far approdare la nave. Soddisfatto del risultato del disco, ce ne parla nell’intervista che segue.
John Berg (chitarra) – Alexander Lycke (voce) – Georg Härnstend (batteria) – Jonathan Olsson (basso) – Micke Jansson (tastiere)
Ciao Georg, innanzitutto, grazie per aver accettato l’invito a chiacchierare con noi! Partiamo dal titolo del nuovo disco dei Paralydium che, se non sbagliamo, hai scelto tu... Grazie a voi, mi fa piacere parlare con gli amici italiani! Universe Calls è semplicemente uno dei brani della tracklist e in effetti è stata mia l’idea di suggerirlo come titolo dell’album. A dire il vero, avevamo qualche altra opzione ma quando l’ho proposto alla band, tutti sono stati d’accordo all’istante.
L’artwork di copertina è di Roger Dean e anche questa volta sei tu ad aver dato l’input, giusto? Inoltre, sei anche il co-autore dei testi, ce ne parli? Roger ha fatto un ottimo lavoro e sono proprio soddisfatto. In quanto ai testi, ho messo il mio contributo insieme a John [Berg] in tutte le tracce del disco, eccetto una. Riguardo invece alla composizione delle musiche è tutta opera di John.
Entriamo nel vivo del disco: innanzitutto, quanto tempo hanno richiesto le registrazioni? Parecchio tempo. Il processo di produzione è stato lungo e laborioso, addirittura io ho cominciato a registrare le mie parti nell’estate 2023.
Sands Of Time è il singolo che avete scelto per la presentazione di Universe Calls, un brano che porta l’ascoltatore in un viaggio “attraverso territori desertici governati da un uomo di potere destinato a governare il mondo. Potente e forte, fonde melodie possenti con riff e groove che colpiscono duro, e consegna il feel dell’intero album...” E’ quel che ha detto John Borg: sei d’accordo con lui? D’accordissimo! Con questo album abbiamo scavato profondamente nelle nostre radici prog; i fan della prima ora riconosceranno parecchi ingredienti del nostro Ep d’esordio, ora però caratterizzati da brani più lunghi e arrangiamenti più epici ed ariosi, frutto di una coesa sinergia.
Forging The Past, mette in gran risalto le doti tecniche di ciascuno di voi, pur senza degenerare nella pura ostentazione, tu che ne dici? Confesso che per me è stato il brano più impegnativo e ho dovuto lavorarci sopra parecchio per metabolizzarne tutti i passaggi e i tempi corretti, evitandone la meccanicità, se così posso dire. Volevamo ampliare lo spettro sonoro attraverso cambi di atmosfera in puro stile prog che privilegiassero la coesione e l’interplay della band; una partitura piuttosto intricata, che ha richiesto parecchie take prima di approdare a quella definitiva.
The Arcane Exploration è una lunga suite che avete suddiviso in due parti, diremmo il punto focale del disco... Anche questa è una composizione articolata, fatta dell’altalenarsi di incastri precisi: riff potenti e assoli liquidi di John, intermezzi strumentali, linee melodiche interpretate ad hoc e cantate dalla voce perfetta di Alexander [Lycke] e una sezione ritmica governata dalle puntuali linee di basso di Jonathan [Olsson] e dal mio drumming teso all’espressione e alla solidità. Ventotto minuti complessivi!
Ancora riguardo a Universe Calls, c’è un brano che prediligi su tutti? In questo momento dico Caught In A Dream, ma so che se me lo chiedeste domani ne citerei un altro. In tutti i casi, questo pezzo ha quei bei tratti in stile AOR, fluido e scorrevole, con tanto di assolo delle tastiere di Micke [Jansson] che ti porta ad ascoltarlo più e più volte. Sì, per me è un brano semplicemente magnifico!
Se tu potessi cambiare qualcosa del lavoro che hai fatto per Universe Calls, nel caso, dove interverresti? No, non vorrei cambiare niente. Come dicevo, le fasi di produzione dell’album sono state impegnative ma alla fine siamo riusciti ad arrivare all’obiettivo che avevamo in mente. L’album è grandioso e tutti noi ne siamo davvero soddisfatti.
Che genere di equipaggiamento hai utilizzato per le registrazioni? L’album lo abbiamo registrato nel mio studio, del quale, consentitemi di dirlo, ne vado orgoglioso, e lì ci sono tutti i miei strumenti, incluse le batterie Mapex e i piatti Zildjian di cui sono un endorser. Sono due le batterie che utilizzo, una Saturn Evolution per il palco ed una Saturn V per registrare, incluso il nuovo disco, naturalmente. Cassa 22”, tom 12” e 13”, floor 16” e rullante 14”x 6,5” Black Panther Atomizer Aluminum. In quanto ai piatti miscelo configurazioni differenti in base alle situazioni; tra essi, hi-hat 14” K Costantinople, ma anche K Custom Session, crash, ride, stack ed anche splash e FX per le nuance e gli effetti più diversi. Zildjian anche le bacchette, precisamente 5B Hickory. Inoltre, per registrare utilizzo spesso un Kahayan Pro Audio 12K72, che è un preamp/mic in formato rack che questo marchio spagnolo concepisce per la chitarra, ma che per quanto mi riguarda funziona molto bene anche per le riprese della batteria.
Volendo mettere a confronto il precedente album, Worlds Beyond, con l’odierno Universe Calls, ci vedi dei parallelismi in termini di sound? Direi che il sound della band si è ammorbidito con l’arrivo di Alexander [Lycke] che ha ereditato il microfono da Mikael Sehlin. Il timbro della sua voce, caldo e corposo, ha contribuito parecchio e così l’inevitabile differente approccio all’interpretazione dei brani. Lui è un grandioso storyteller, ci mette l’anima quando canta, e personalmente mi piace un sacco ascoltarlo. Inoltre, c’è stato un cambio di rotta tra i due dischi e se Worlds Beyond era una sorta di concept, con una storia che attraversava tutti i brani della tracklist, in Universe Calls ogni brano vive una storia a sé stante, eccetto le due parti di The Arcane Exploration, strettamente connesse tra loro.
La stampa e in generale i media vi definiscono una band progressive metal. Per quanto non sia sempre semplice stabilire etichette di genere, sei d’accordo con questa definizione? Direi proprio di sì. Pur se il nostro non è un prog metal nella più stretta accezione del termine, confesso che io stesso definisco il sound della band in questo modo.
Tu hai cominciato con la batteria a soli sette anni, giusto? Giusto e già da teenager avevo deciso che la mia vita sarebbe stata accanto alla batteria. Ancora oggi, non c’è nulla che io ami di più del suonare dietro un drumkit!
Hai iniziato con il rock? Sì, ho iniziato con il rock... adoravo i Van Halen. Con il tempo, continuando e continuando a suonare la batteria, mi sono addentrato nei territori del metal, del melodic metal per meglio dire.
Tu hai suonato con Joe Lynn Turner, Dee Snider, Brian May, Kee Marcello... sei nei Paralydium e sei impegnato a tempo pieno con i Dynazty: significa dover calibrare gli intenti in base alla situazione? I Dynazty sono la mia band principale, la mia maggiore occupazione, mentre i Paralydium sono perlopiù un side-project. Dunque, suonare con artisti come Dee Snider o Joe Lynn Turner o con gli stessi Paralydium, significa riuscire a creare il background ritmico adeguato al contesto. Il discorso è diverso quando invece sei proprio parte di una band e ciò comporta intenti diversi, pensati in funzione del linguaggio e del sound della stessa band. In quanto al mio obiettivo, resta lo stesso in ogni tipo di situazione: suonare al meglio e suonare per la musica.
Ci racconti come è nata la tua famosa “Gong Bass Theory”, la tecnica alternativa alla doppia cassa che hai sviluppato tu e trasferito in un vero e proprio metodo didattico? Stavamo lavorando al nostro quarto album [Renatus, dei Dynazty, 2014] e mi ero reso conto che la nostra musica aveva bisogno di una cassa che suonasse un maggior numero di note. Non mi sarebbe stato possibile suonare certi pattern con il solo piede destro ma, invece che optare per l’aggiunta di un secondo pedale, ho preso a pensare a una seconda cassa, sospesa sul rack, suonata con la mano sinistra. L’idea è partita da lì e ci ho speso non so quanto tempo prima di riuscire a mettere a fuoco i connotati di una tecnica precisa, ma ce l’ho fatta e successivamente ho pubblicato appunto il metodo.
Prima hai detto che adoravi i Van Halen, ma parlando specificamente di batteristi, quali erano i tuoi idoli? Alex Van Halen, certamente... Jeff Porcaro, Vinnie Appice e probabilmente su tutti Matt Cameron con Soundgarden e Pearl Jam. Quindi, Lenny White con i Return To Forever. Sono tra le mie influenze a tutt’oggi.
Qual è a tuo avviso la dote principale che un buon batterista dovrebbe avere? Suonare per la musica e non per la batteria. Non importa se devi suonare pochissimo o tantissimo, e non occorre recitare la parte del batterista very cool... Quel che è fondamentale è mettersi al totale servizio della musica.
Una volta hai detto: “potrei suonare con chiunque mi proponga una buona situazione!” Lo pensi ancora? [ride] Certo! Io sono sempre contento di suonare la batteria, a patto che si tratti di un buon contesto in cui farlo. Suonare la batteria è la mia vita.