Vecchio trucco, quello di celare la propria identità sotto una maschera. Un escamotage usato spesso nel mondo rock.
Ad indicare la via ci pensarono i Rolling Stones di un androgino Mick Jagger, erano i ruggenti sessanta; poi, fu la volta del Bowie dalle molte facce, da Ziggy Stardust al Thin White Duke, che passò il testimone a Peter Gabriel e da lui ad Alice Cooper e Kiss.
Ciascuno apportando modifiche, aggiungendoci dettagli, sino a giungere al grandguignolesco teatro messo in scena da Marilyn Manson. Ma la sublimazione artistica, sorta di incubo metal, l’hanno raggiunta gli SLIPKNOT venuti dall’Iowa.
Le loro, sono le maschere definitive: dal naso fallico simil-Drughi di kubrickiana memoria ai chiodi piantati nel cranio in stile Hellraiser, sino all’omaggio a Hannibal The Cannibal. Welcome in the Slipknot world!
Un sabba metal tra il macabro e il raccapricciante che sui solchi del loro ultimo album, All Hope Is Gone, ha saputo ammaliare quasi 4.000.000 di adepti scalando le classifiche di mezzo mondo. Ma, va da sé, a nulla servirebbe una tale messinscena se non fosse supportata da concreti elementi di talento artistico. Ed è
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I nove componenti della band sono ottimi musicisti e se la linea di fuoco formata da Mick Thomson e Jim Root si posiziona esattamente nell’occhio del ciclone sonoro, è la sezione ritmica composta dal batterista Joey Jordison (il numero 1) e dal bassista Paul Gray ( il numero 2) a fornire la giusta spinta a un motore palesemente sovralimentato. Tutti i loro brani - a partire da quelli di All Hope Is Gone - si ergono maestosi su fondamenta ritmiche solide e squadrate; muri maestri sui quali poggiano soluzioni architettoniche originali e coraggiose.
Nathan Jonas “Joey” Jordison (26 aprile 1975) nasce e cresce a Des Moines (stato dell’Iowa) sviluppando da subito uno spiccato interesse per la musica. Impara a suonare la chitarra sino a che non riceve come regalo dai suoi genitori... un drumkit! Ha 8 anni e, da allora, per lui sarà tutto diverso.
Ancora ragazzo, assiste allo sgretolarsi del matrimonio dei genitori sino al divorzio: lui e le due sorelle più giovani seguono la madre, che si risposa qualche tempo dopo. Joey, diventato nel frattempo l’uomo di casa, sente su di sé una forte responsabilità, cosa che ne condiziona la vita facendolo maturare anzitempo.
Particolare di non poca importanza: la madre presta servizio presso una ditta di onoranze funebri e si avvale dell’aiuto del figlio. Un elemento che aiuta a capire parzialmente il carattere e certe propensioni che caratterizzano il periodo Slipknot.
La prima band Joey la forma a 15 anni, i Modifidious. Lui la definisce total speed metal thrash e le attribuisce poca importanza a livello musicale ma la ritiene fondamentale per entrare in un certo giro. Infatti, fungendo da backing band per altri gruppi, Joey entra in contatto con diverse realtà allargando le sue conoscenze. Tra queste, gli Atomic Opera in cui milita Jim Root e gli Heads On The Wall in cui suona Shawn Crahan.
I Modifidious si sciolgono all’inizio del 1995 dopo aver inciso un paio di demo (Visceral e Mud Fuchia); Joey non trova quindi di meglio che unirsi agli Anal Blast di un imberbe Paul Gray. Proprio Paul, mesi dopo, gli offre di unirsi al suo nuovo gruppo, i Pales Ones. Accetta, senza tuttavia lasciare il lavoro come guardiano di auto in un garage perché
all’inizio, lo ammetto, dovevo sforzarmi di rimanere serio: la loro musica non era un granché!
Invece, la cosa sembra funzionare, spargendo i semi di ciò che saranno gli Slipknot. Joey è molto più di un batterista ma musicista completo: è coinvolto nel processo di scrittura, mixaggio e produzione; suoi i suggerimenti a livello di arrangiamenti e di immagine. “Il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene...”, come ricorderà Mick Thomson. Non a caso, quando ogni membro della band si assegna un numero progressivo, a lui tocca il numero uno.
Un dedizione, la sua, che divide con l’altro amore musicale, i Murderdolls. Durante l’Ozzfest 2001, in supporto all’album Iowa, Joey incontra Tripp Eisen (allora con gli Static X) e insieme decidono di dar vita a un progetto parallelo, appunto i Muderdolls, in cui suonerà la chitarra. (L’ep Right to Remain Violent e l’album Beyond The Valley Of The Murderdolls, 2002).
In seguito, Joey incrocia le bacchette con Marilyn Manson, i Metallica (sostituendo un allora indisposto Lars Ulrich), i Satyricon , i Korn e, buoni ultimi, i 3 Inches of Blood nelle vesti di produttore dell’album Fire Up the Blades (2007). Unica nota dolente, l’incidente all’anca occorsogli lo scorso anno che avrebbe potuto comprometterne la carriera.
Da qui, quasi ad esorcizzare un pericolo ormai scampato, parte la nostra chiacchierata, che si dipana tra notazioni tecniche, aneddoti legati alla saga Slipknot, il felice, doppio matrimonio con Pearl e Paiste, sino alla sfida alle leggi di gravità della piattaforma idraulica sulla quale egli si libra sulla sua batteria, roteando di 360° a parecchi metri di altezza dal palco.
Problemi? “Assolutamente no” - confessa quasi stupito Joey - “quando inizio il mio assolo sono talmente concentrato, che non mi accorgo neppure di volteggiare in aria. E’ una sorta di trance: sono presente ma è come se fossi proiettato in un altro mondo...”
Partiamo dall’incidente dello scorso anno: come è successo? Un pomeriggio, giocavo con un amico a wrestling poiché entrambi amiamo questo sport/spettacolo che è l’ideale per scaricare un po’ di tensione. Il problema è che lui ha preso la cosa più seriamente di me, rovinandomi addosso. Risultato: un taglio piuttosto profondo e un duro colpo all’anca. Sulle prime non ci ho fatto molto caso e sembrava cosa da poco, poiché potevo camminare. Mi sono riposato un po’ e la sera successiva ero sul palco. Ma, durante Blister Exists, mentre stavo passando alla cassa nel passaggio tra i due ultimi cori, un momento veloce e tecnicamente impegnativo, ho avvertito distintamente un crack all’anca. Ho continuato a suonare, ma alla fine del concerto mi sono accorto di una tumefazione grossa come una palla da baseball! Sorpreso ma non preoccupato, ho deciso di cavarmela con una crema antidolorifica. Fortunatamente, qualcuno mi ha suggerito invece una visita dal medico. Così, per sicurezza. La prognosi, ovviamente, non è stata quella che mi aspettavo. “Incosciente, non vedi che ti sei rotto l’anca?” è stato il commento lapidario del medico che mi suggerì un’operazione d’urgenza. Ma mi era impossibile, visto che eravamo nel mezzo di un tour, perciò arrivammo a un compromesso: l’applicazione di uno di quei tutori capaci di imprigionare la parte impedendo sforzi. Così ho continuato a suonare e, arrivato al termine del tour, sono tornato dal medico. Stavolta le notizie erano, se possibile, peggiori: “se continui così il danno diverrà permanente e con la musica avrai chiuso!”, sentenziò. Risultato? Immediato ritorno a casa, rigida dieta e sedute mirate di fisioterapia. Alternativa: handicap permanente. Non avevo mai mancato uno spettacolo, mai dato forfait. Ma, evidentemente, c’è sempre una prima volta. E’ stato il periodo più duro della mia vita...
... ma alla fine hai rivisto la luce! Certo. Anzi, grazie all’intenso training quotidiano, ho migliorato il mio playing e l’approccio fisico al drumset. Grazie alla ginnastica, alle vitamine e tutto il resto, la mia anca è diventata più forte di prima. Non sarò un atleta, ma posso praticare un’attività sportiva che mi piace e, cosa più importante, suonare come una volta.
Un’ottima notizia... anche alla luce del successo in milioni di copie dell’album All Hope Is Gone. Ha debuttato negli Stati Uniti al numero uno, bloody hell! Un successo inatteso, visto anche che non suoniamo black metal, né death metal, né industrial, pur se abbiamo nel nostro Dna degli elementi che ci accomunano a questi generi di musica. Il nostro è uno stile particolare, originario del profondo Iowa, ed ora al numero uno negli Usa. La riscossa di un dio minore, un enorme dito medio in faccia al music business! Il che non significa vendersi al sistema: gli Slipknot hanno sempre mantenuto le posizioni, facendo della coerenza una bandiera.
All Hope Is Gone è il primo album scritto ed inciso nello Iowa, giusto? Giusto. Lo abbiamo registrato a Jamaica, una quarantina di miglia da Des Moines, in una fattoria attrezzata a studio di registrazione in mezzo ai campi di grano. Essendo vicini a casa, la sera ciascuno se ne tornava in famiglia. Dunque, nessuna distrazione e nessuna pressione: solo divertimento. Il processo di scrittura è stato abbastanza anomalo. Per ciò che mi riguarda, almeno. Per la prima volta, infatti, ho inciso le parti di batteria da solo, a memoria, senza aver accanto la band, come d’abitudine. Le parti di chitarra e le tastiere non erano ancora definitive, perciò ho sovrainciso un linea guida di chitarra che mi ha fornito lo spunto per lavorarci su.
Un lavoro lungo? Non troppo. Tre giorni in tutto. Ma attenzione!... brani come All Hope Is Gone e Butcher’s Hook sono stati incisi un paio di mesi più tardi: sai, il lavoro in studio, è sempre un work in progress. Direi che allora conoscevo come si dovevano muovere le parti di batteria, ma il resto è nato e sviluppato sul posto.
Come sei solito registrare? Tendo ad incidere una sola e lunga take per ogni brano. Spezzettare le cose può essere utile ma spesso perdo in concentrazione ed emozione. Certo, strada facendo, mi capita di cambiare una parte, degli accenti o un attacco... ma in quei casi preferisco ricominciare il brano daccapo. E funziona. Tutti i brani che ascolti sull’album sono il risultato di due, massimo tre takes.
Tornarci su non aiuta a migliorarti? No. Anzi, essere insoddisfatto mi irrita e correggere un errore mi porta a peggiorare la situazione.
Alcuni brani, ad esempio This Cold Black, sono molto veloci e tecnicamente impegnativi. Come fai a star dietro ai vari cambiamenti di tempo? Giusta osservazione. Alcuni brani, e mi riferisco a Gematria, Vendetta e alla stessa All Hope Is Gone, sono molto veloci e tenere il tempo,o meglio i tempi che li caratterizzano, non è cosa facile. Solo di recente sono riuscito, grazie anche a particolari esercizi di respirazione e concentrazione, ad avere tutto sotto controllo: polmoni, muscoli e cervello. Il tutto, rimanendo rilassato: la tensione è sempre una cattiva consigliera. Suggerisco a tutti i giovani batteristi di curare la respirazione e il relax mentale: permette di ottenere ottimi risultati. Personalmente, più mi rilasso, più le performance migliorano. E’ anche per questo che pratico molto dietro il drumkit quando non sono in studio o in tour. Diversi brani degli Slipknot sembrano seguire un’unica direzione ma non è così. Al loro interno si districa spesso una serie di mutamenti e di cambi di tempo, pur se minimi. Prendiamo la title-track: la seconda strofa è differente dalla prima sebbene sia assai simile. Sfumature, appunto, ma significative. Il tempo cambia, il riff cambia, le note cambiano. E’ ciò che rende gli Slipknot unici.
Stilisticamente parlando, All Hope Is Gone è un album molto vario. Psychosocial, uno dei brani più rappresentativi, è più rock che metal mentre altri, ad esempio a Vermilion Pt.2 e ‘Til We Die (presenti nella versione deluxe) puntano sui suoni acustici. Riguardo a Psychosocial concordo: il suo, è un suono a metà strada tra Ministry e Meshuggah, arricchito da un ottimo coro. E’ forse il mio preferito, uno dei primi che ho messo su nastro insieme a Paul (Gray, il bassista). Ci piace comporre e suonare mantenendo playing differenti e non necessariamente veloci e duri. Spesso è una questione di mood, di umore. Molte band tendono a rimanere fedeli a un genere che considerano poi una sorta di griffe: non così gli Slipknot che, anzi, preferiscono offrire uno spettro sonoro il più vasto ed articolato possibile.
E’ vero che solitamente componi con la chitarra? Spesso il riff di chitarra nasce prima della traccia di batteria. Anzi, tutto nasce da un riff e non da una linea vocale o da una di batteria. Il resto diventa un lavoro di squadra.
Nove persone non sono poche. Se in studio può creare difficoltà sul palco l’impresa pare ardua... Ci vuole un grande affiatamento e un severo lavoro in studio di registrazione. All’inizio Corey scordava spesso le parole e proseguire diventava davvero difficile. Poi è andata meglio...
Parliamo delle tue influenze musicali. Sappiamo che ami il jazz e la fusion... Amo quei generi di musica per via dell’improvvisazione; parte integrante del jazz è insita nel suo Dna e in parte anche nel mio. Se devo scegliere un paio di nomi in tal senso, direi Gene Krupa e Dave Weckl. Il primo veloce, preciso e molto creativo, capace di tirar fuori dal cappello a cilindro trucchi fantastici e di classe eccelsa. Ricordo il suo album, The Drum Battle, inciso con Buddy Rich: un autentico must della batteria. Dave Weckl mi piace per quel suo sapore quasi metal, per i suoi tempi dispari e le costruzioni al limite del concepibile. Un personaggio, oltreché un musicista.
Il tuo preferito di sempre? Keith Moon, per la classe inimitabile e l’assoluta imprevedibilità. Non sapevi cosa aspettarti da lui: riusciva a stupirti con effetti speciali per poi tornare e trovarsi al posto giusto al momento giusto. Pete Townshend rimaneva sbalordito dalla sua abilità di improvvisare ma, ancora di più, dalla capacità di riprendere il tempo là dove l’aveva lasciato, in sincrono con il basso di Entwistle e la sua chitarra. Keith era uno spettacolo nello spettacolo. In questo vorrei somigliargli.
La tua maschera, almeno agli inizi, era quella di un personaggio del teatro Kabuki. Sono sempre stato attratto dalla tradizione artistica orientale, in special modo dal teatro giapponese: per questa ragione ho scelto una maschera bianca, tipica del teatro kabuki, e l’ho arricchita con false cicatrici e rivoli di sangue, aggiungendoci, infine, una corona di spine... come semplice ornamento, in nessun modo intendo offendere la religione cristiana o essere blasfemo.
A parte riservarti il numero 1 della band, sei il creatore della S del logo e del termine Maggot che contraddistingue i vostri fan. E’ corretto? Ho sempre posseduto una certa vena artistica riferita alle arti grafiche. Da qui la S stilizzata, nonché logo della band.
Qual è stato il primo album che hai acquistato e il primo concerto a cui hai assistito? Il primo album comprato con i miei soldi? Kiss Alive, naturalmente. Il primo concerto? Uno dell’Asylum Tour dei Kiss, naturalmente. La band con cui mi piacerebbe suonare? I Kiss, naturalmente! E i Melvins. Mentre la più grande metal band per me restano i Black Sabbath: i loro primi album sono veri capolavori.
Veniamo al tuo set, partendo dai Black Alpha di Paiste. Un giorno mi trovo in Svizzera in visita agli amici della Paiste, i quali ne approfittano per farmi assistere al processo di lavorazione con cui vengono realizzati i piatti. Vado letteralmente fuori di testa e loro mi propongono una linea col mio nome. Mi sono sempre piaciuti neri, i piatti, come quelli che già possiedo, così penso che sia carino ed appropriato creare una nuova serie con impresso il logo S della band. Però devono avere un prezzo accessibile, di modo che anche i giovani batteristi se li possano permettere. Seguendo il mio gusto, scelgo quindi una timbrica decisamente particolare: bassa abbastanza da avere un certo riverbero, ma pure adatta a sviluppare i medi. Un mix delle serie Paiste 2002 e Rude, per intenderci. I piatti Slipknot Edition Alpha Series per me sono spettacolari. I charleston, ad esempio, sono capaci di offrirti ottimi livelli di volume e una varietà di suoni sorprendenti. Suonarli è una vera gioia.
Come batteria, invece, adotti Pearl. Precisamente una Pearl Reference Series con due casse e rullante Signature. Le parti elettroniche sono DDrum e le bacchette Ahead Joey Jordison Seris. Mi trovo molto bene con questo set, versatile e potente.
Tre domande a Paul Gray
bassista - il numero 2 degli Slipknot La liaison con Joey Jordison nasce in tempi non sospetti. Ben prima degli Slipknot, giusto? All’inizio degli anni ‘90, per la precisione. Appartenevamo entrambi alla scena musicale di Des Moines, in particolare all’area thrash metal così, un giorno, ci ritrovammo nella fila degli Anal Blast. Una avventura breve, a cui seguì una prima incarnazione degli Slipknot. Io e il Clown (Shawn Crahan) partorimmo l’idea di dar vita a questo gruppo, ma il batterista che avevamo scelto, inaffidabile come scoprimmo ben presto, non si dimostrò all’altezza così chiamammo Joey chiedendogli se era disposto ad unirsi a noi. Avuto risposta affermativa, lo obbligammo ad imparare sul momento tre brani! Nulla di particolarmente difficoltoso, potresti obiettare. Certo, se non fosse che ogni nostra song già allora contava almeno una ventina di cambi di tempo, riff supertecnici di puro death metal, più i solo e tutto il resto. Da farti venire il mal di testa!
Tu e Joey rappresentate ben più di una semplice sezione ritmica e siete il cuore creativo degli Slipknot... Non appena scendiamo dal tour bus, iniziamo a buttar giù nuovo materiale, in sincrono. Non fraintendermi, ci vogliono nove persone per realizzare compiutamente una song degli Slipknot; ma la scintilla scaturisce dall’interazione tra me e Joey. Ci intendiamo alla perfezione, in 17 anni di convivenza artistica avremo litigato non più di cinque volte e, sempre trovato una soluzione. Di solito... la mia! (ride)
A quali strumenti ti affidi oggi? Per ogni album degli Slipknot ho usato un determinato basso elettrico. Su All Hope is Gone ho adottato il mio Ibanez PGB-1 Signature, mentre su Vol. 3 il mio Warwick Streamer Stage 2. Sul primo album ho adottato il Warwick Corvette Standard e su Iowa il Warwick Thumb (neck thru model). Riguardo agli amplificatori, utilizzo Peavey: pecisamente un GBS-2600, un Pro 810 e un Pro 1600.
Joey Jordison setup
Pearl Reference Series drumkit 22 x 20” Bass Drum (x2) 14 x 7,5” Snare Drum 8 x 7” Rack Tom 10 x 8” Rack Tom 12 x 10” Rack Tom 13 x 11” Rack tom 16 x 16” Floor Tom 18 x 18” Floor Tom 20” Gong Drum Timbales (x4)