Scorrere il curriculum di Simon Phillips è come ripercorrere un'enciclopedia di rock e fusion degli ultimi vent'anni, a cavallo dell'oceano. La sua batteria inconfondibile è apparsa in un centinaio di dischi, la sua spinta propulsiva ha toccato il rock più classico (gli Who, Mick Jagger Band, Pete Townshend, Jeff Beck), il progressive inglese (Phil Manzanera, Brian Eno), il jazz-rock americano (Stanley Clarke, Al Di Meola) per approdare infine al rock sofisticato dei Toto in cui ha ereditato il posto di Jeff Porcaro. Sempre e comunque, Simon è riuscito a postare una ventata di vitalità timbrica, con un drumming potente e aggressivo dal sound molto personale.
Discepolo della scuola di Billy Cobham, Phillips è stato per lungo tempo il batterista inglese più richiesto in America grazie al suo stile molto fresco e creativo che scavalca i manierismi statunitensi. Volendo ripescare le performance più clamorose tra gli innumerevoli dischi a cui Simon ha partecipato, è necessario fare una drastica selezione.
Tra le prime apparizioni, la più folgorante è nell'album "801 Live ('76) del supergruppo 801 assemblato dal chitarrista Phil Manzanera con Brian Eno: Phillips è proprio il fulcro del disco, portando una nuova energia e incredibili accelerazioni al repertorio dei due leader. Della stessa
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spinta entusiasta che funziona da turbo ha beneficiato Pete Townshend ("White City", "Deep End Live!" e anche "Join Together" degli Who), la fusion all'inglese di Gary Boyle ("The Dancer") e il rock classico di Jack Bruce (il live "Cities of the Heart"). Altro momento fondamentale è "There and Back" di Jeff Beck, in cui Simon si cimenta anche come co-autore, alle prese con un curioso ibrido tra jazz-rock e rock-blues. Per la fusion americana ricordiamo "Rock, Pebbles and Sand" di Stanley Clarke; nel genere power hard rock annoveriamo le sue collaborazioni con Gary Moore, Mr. Big e Joe Satriani ("Flying in a Blue Dream" e "Time Machine").
Simon deve la sua vasta esperienza agli esordi molto precoci (è nato nel febbraio 1959 e a 15 anni riusciva già ad avere i primi ingaggi) e ad una intelligenza musicale superiore alla media dei drummer. Proprio per questi motivi la sua attività solista è cominciata piuttosto presto, nel '79 dall'album firmato RMS "Centennial Park" con il chitarrista Ray Russell, ed è proseguita fruttuosamente con ben 6 dischi al suo attivo.Tra questi ricordiamo "RMS with Gil Evans", una collaborazione speciale col grande arrangiatore scomparso, e il live "Force Majeure" con la formazione Protocol.
Il polso di autore è diventato via via più sicuro, reggiungendo i risultati più entusiasmanti in "Symbiosis" del '95 e ancora di più nel recente "Another Lifetime" (su etichetta Lipstick) con una formazione lussuosa che annovera Anthony Jackson al basso e il tandem di chitarristi Ray Russell e Andy Timmons. L'album si distingue per il sound davvero imponente e composizioni molto curate, che mettono in luce il drumming spettacolare di Phillips e le fantasiore evoluzioni soliste dei due chitarristi.
La storia recente di Simon è dominata dall'attività miliardaria con i Toto, a cui si è unito come membro stabile nel 1993 dopo la scomparsa di Jeff Porcaro. A partire dall'album "Tambu", Phillips caratterizza i ritmi della band con il suo sound inconfondibile e assume anche il ruolo di co-autore. Per apprezzare in pieno il suo contributo all'energia rock del gruppo, il doppio "Absolutely Live" è un buon punto di partenza in cui si riascoltano anche nuove interpretazioni di classici della band come "Rosanna" e "Hold the Line". Phillips è un pilastro fondamentale anche della band solista di Steva Lukather "Los Lobotomys" dedicata a rock strumentale, con cui ha ralizzato i due vivaci album "Lobotomys" e "Candyman".
Tutti i periodo di pausa dai tour con i Toto sono dedicati alla sua attività di solista ed è proprio in questa veste che l'abbiamo visto approdare in Italia. La band dal vivo ricalca il lineup del disco "Another Lifetime" eccetto il magistrale Anthony Jackson rimpiazzato dal giovane Jeffe Andrews; dei due chitarristi è presente soltanto Andy Timmons, che riesce comunque a riempire la scena con la sua energia power-metal-fusion. Il sound complessivo del gruppo è compatto e robusto, guidato dall'intreccio tra chitarra elettrica e sax alto. Phillips conduce la danza con grande autorità, sfoggiando il suo drumming poderoso da gladiatore e passando continuamente da groove accattivanti a decisi break rock. Il repertorio è tratto da "Another Lifetime" e dall'album precedente "Symbiosis" e anche dal live dei Protocol "Force Majeure"; talvolta gli assoli mancano di personalità (specialmente quelli del giovane tastierista acerbo Jeff Babko) ma la robusta energia jazz-rock collettiva supplisce alle versioni degli album. Il colloquio conSimon ci svela una personalità di gran spessore e intelligenza, dotata di cultura e sensibilità, sempre accesa da un entusiasmo giovanile che non lo ha mai abbandonato dopi tanti anni di carriera.
La tua band dal vivo è la stessa dell'ultimo album "Another Lifetime"? Più o meno: Andy Timmons alla batteria, Wendell Brooks ai sax e Jeff Babko alle tastiere, suonavano anche nel disco. L'unica novità è Jerry Watts al basso che rimpiazza dal luglio scorso Anthony Jackson, mentre sull'album c'era anche l'altro chitarrista Ray Russell.
Come sei arrivato alla scelta di questo lineup? C'è voluto un pò di tempo per decidere, una specie di processo per eliminazione. Tutto è cominciato con il mio album "Protocol - Force Majeure" del 1992 che ha visto formare il primo nucleo con Ray Russell e Anthony Jackson. All'epoca del disco "Symbiosis" Anthony non poté partecipare per suoi problemi di salute, così chiesi a tre bassisti di alternarsi nel disco: John Pena, Jimmy Johnson e Mike Porcaro. Le tastiere per me erano un problema perchè non avevo avuto un keyboardman nella mia band da parecchio tempo; l'ultima volta era stato con Tony Hymas nel '90. Perciò avevo bisogno che mi consigliassero qualcuno molto in gamba, perché la mia musica richiede una solida tecnica jazzistica ma anche una forte attitudine rock e inoltre un tastierista deve saper programmare le tastiere da solo: a Los Angeles non è facile trovare musicisti con tutti quei requisiti, a Londra va meglio e anche a New York, ma in L.A. molti tastieristi hanno il vizio di farsi programmare i synth dagli altri. La mia etichetta Lipstick mi consigliò di rivolgermi a Mitchell Forman ed effettivamente trovai in lui un musicista incredibile oltre che grande esperto di elettronica. Il sassofonista Wendell Brooks l'avevo conosciuto suonando con Mick Jagger nel 1987 e mi era rimasto impresso per la sua precisione ed energia; l'abbinamento del sound incisivo del suo sax con quello della chitarra mi sembrava una carta vincente. Così nacque il sound di "Symbiosis" e quando arrivò l'epoca dei concerti volevo riproporre esattamente quella band con Anthony Jackson al basso; ma lui non si era ancora ristabilito completamente, e così chiesi a Jimmy Earl (ex Corea Elektric Band) perché adoro il suo groove.
Mitchell Forman fu costretto a rinunciare al tour perché sua moglie era sul punto di partorire, e mi raccomandò un giovane tastierista suo allievo che secondo lui era fenomenale: era Jeff Babko, soltanto ventiquattrenne, ma appena l'ho sentito suonare ho capito che aveva grande talento. Quando l'ho visto la prima volta, con quell'aria da ragazzino, ho capito quale impressione facessi io le prime volte in cui mi presentavo alle audizioni: avevo 17 anni quando ottenni i primi ingaggi professionali. La sfortuna bloccò anche Ray Russell con problemi famigliari e l'unico chitarrista che avesse già suonato mio materiale prima di allora era Andy Timmons.
Dove avevi conosciuto Andy? Lo avevo incontrato al NAMM Show di Los Angeles nel 1993, in uno spettacolo intitolato "Axe Attack" con 7 chitarristi del calibro di Steve Vai, Joe Satriani, Shawn Lane. Io ero il band leader, una specie di maestro delle cerimonie; il gruppo suonava alcuni brani del mio repertorio, oltre a cover di altre band. I boss dell'Ibanez mi consigliarono Andy perché lo reputavano adattissimo al mio genere e io chiesi loro se erano sicuri, perché il materiale scelto era abbastanza complicato e io non conoscevo questo musicista. All'Ibanez conoscono molto bene l'ambiente chitarristico americano, cosicché decisi di fidarmi di loro: mandai una lettera a Andy con gli spartiti e un nastro delle mie composizioni. Poi ci trovammo direttamente in sala prove e il primo brano che suonammo fu "Cosmos" tratto dall'album "Force Majeure", un pezzo molto difficile da eseguire: Andy fu sbalorditivo, sapeva suonare perfettamente tutto il mio materiale!
Timmons ha la giusta attitudine per suonare con me, perché è un chitarrista rock ma ha la scioltezza e la versatilità di un jazzista, oltre a una conoscenza approfondita dell'armonia e dell'improvvisazione.
Vive anche lui a Los Angeles? No, Andy è di Dallas. Ha realizzato anche un paio di album solisti ed era il lead guitarist della rock band Danger-Danger. Tornando alla formazione della mia band, con Andy si completò il quadro. Il mio concept deriva proprio dal rock and roll: una volta messa insieme una band, mi piace mantenerla stabile per approfondire l'interplay e l'energia collettiva. Non riuscirei ad avere un gruppo con musicisti che cambiano frequentemente il sound, perderebbe personalità.
Quando ascoltai "Symbiosis" pensai che era un grande disco, ma quando ho sentito quest'ultimo album è stata una sorpresa perché sei riuscito a superarti ancora. Il sound è davvero imponente e aggressivo e le composizioni sono molto comunicative, pur essendo complicate. Come hai ottenuto questo alto livello musicale? Credo che l'attitudine a monte di questo disco sia nello stile che sto cercandio di sviluppare in questi ultimi anni. Se pensi al jazz rock dei tempi d'oro (quello degli anni '70 dei Weather Report, Mahavishnu Orchestra e Return to Forever) l'elemento saliente era nelle composizioni straordinarie, supportate da performance avventurose perché nessuno aveva mai esplorato quei territori prima di allora. Ciò che avvenne tra la fine dei '70 e gli anni '80 fu un diluvio di musicisti che saltarono sul carrozzone della fusion, senza avere una visione precisa di quale fosse il vero spirito di quel genere: così le composizioni persero importanza, bastava avere un tema veloce e poi andare di jam, improvvisare a più non posso generando alla lunga la noia nel pubblico. Per me le composizioni sono molto importanti, che si tratti di pop, rock, jazz o fusion; perciò metto grande cura in quella fase, cercando di mantenere i temi molto comunicativi ed estroversi. Io li penso sempre in termini di canzone, anche se sono completamente strumentali: infatti pur essendo armonicamente molto complessi, con ritmi dispari e arrangiamenti densi, sono comunque orecchiabili e potresti fischiettare qualunque dei miei temi.
Come hai imparato a scrivere materiale così complesso? Ah, non finisco mai di imparare! Non ho mai studiato musica o composizione, le mie conoscenze armoniche sono tutte a orecchio; non saprei dirti in quale chiave sono certi brani, o quali sono i nomi esatti di certi accordi, ma li ho scritti tutti io. Faccio tutto a orecchio sulla tastiera e il mio braccio destro preziosissimo è Ray Russell: lui mi aiuta ad elevare il livello armonico dei brani, perché ha un formidabile talento compositivo oltre a conoscenze approfondite di teoria musicale. Tre brani del disco li ho scritti da solo, perché mi sembrava di aver già raggiunto un risultato brillante e funzionale; per altri avevo pronta una traccia o buona parte del pezzo ma volevo confrontarmi con un parere diverso per espandere quelle idee. Ray è il co-autore ideale per me, perché riesce sempre ad aggiungere una marcia in più con il suo tocco personale.
Vi conoscete a fondo, suoni con lui sin dall'album "Centennial Park"! Quello era nel '79, ma ho suonato con lui fino dal '73/74 con la band Showpan. Ero già apparso al suo fianco nel disco "Ready or Not" realizzato da Russell nel '77.
Deve essere introvabile quel disco! Già credo sia piuttosto raro "Centennial Park" degli RMS, ne ho una copia in vinile e non mi risulta ristampato su CD. Era un sound molto fresco e dinamico, la tua ritmica con Mo Foster e con quella sezione fiati... Eh già, un gran bel disco. Pensa che conobbi Ray Russell nel 1973 a una session d'incisione quando io avevo solo 16 anni e lui 25. Poi qualche anno dopo abbiamo formato gli RMS (la sigla è composta dalle iniziali dei nomi Ray, Mo e Simon) e in seguto, dopo parecchi anni, ci siamo ritrovati nei Protocol. Ciò che ci accomuna è il nostro modo molto simile di pensare, entrambi vogliamo abbattere le frontiere tra i diversi generi musicali in nome di un nostro stile personale. Negli anni '70 Ray partecipava a un sacco di session discografiche, cosicché lo potevsmo sentire spesso alla radio anche in canzoni famose, tipo quelle di Tina Turner: io riuscivo sempre a capire quando era la sua chitarra, perchè il suo sound e il suo fraseggio hanno un'impronta molto prsonale.
A me Ray Russell ricorda Jeff Beck, ma con un maggiore orientamento jazzistico... Sì, è vero. Il suo feeling e l'incredibile calore dei suoi bending hanno qualche parentela con Jeff Beck. E un'altra coincidenza per me è che la mia vena compositiva sia esplosa proprio con Jeff, quando scrissi assieme al tastierista Tony Hyman gran parte del suo album "There and Back": così si è formato il mio stile di scrittura, con melodie molto forti, un'influenza heavy-rock ma su armonie complesse. Sto ancora imparando a migliorarmi; ma devo ammettere che "Symbiosis" resta il primo album che mi abbia soddisfatto in pieno dal punto di vista compositivo, perchè ho capito di avere ottenuto una mia impronta davvero personale e di avere imboccato una direzione originale. In "Force Majeure" i brani erano buoni, ma ero ancora alla ricerca di una direzione precisa. "Another Lifetime" è ancora più maturo, per molti versi più complesso, ma nel contempo estremamente comunicativo e accessibile; al primo ascolto cattura subito con l'immediatezza dei temi, ma quando lo riascolti con attenzione scopri quanto siano densi e complessi gli arrangiamenti. Un mio amico batterista quando sentì "Jungleeyes" commentò: "Ah, simpatico questo ritmo" ma quando tentò a sua volta di suonarlo... si accorse che casino è eseguirlo dal vivo.
Quel brano è sorprendente perché di solito la jungle è fatta con drum machines, invece tu hai trovato un modo molto naturale per suonarla umanamente! Ho impiegato una settimana per trovare quel groove, perché era un ritmo molto teso e difficile. Avevo scritto "Jungleeyes" con la seria intenzione di toccare il genere drum'n'bass, e avevo sottoposto a Ray il problema di trovare un modo umano per esprimere quel groove; così esaminammo un CD-Rom con pattern di drum machine a ritmo jungle da usare come scheletro, un tappeto di begli accordi a movimento lento in contrasto con il ritmo veloce, note di basso corte e sparse, il tutto coronato da una bella melodia a note lunghe. Così abbiamo inividuato un ritmo interessante, ne abbiamo fatto un loop e Ray ha cominciato a trovare accordi molto belli per chitarra e tastiere, da lì poi è nata la linea di basso e la prima traccia del tema, e io ho avuto l'idea di quel break rock sincopato. Il vero problema è nato quando ho dovuto trovare il modo di suonarlo alla batteria! E' davvero una missione suicida suonare Jungle a mano, perché è così dannatamente veloce! Originariamente il beat di quel pezzo era 160, ma alla fine l'abbiamo stabilizzato a 157 perché era troppo veloce per far vivere il groove con scioltezza. Ho provato a casa per vari giorni, ma era molto duro far scorrere il ritmo fluidamente a quella pulsazione rapida senza renderlo nevrotico e affaticato. Finché mi sono detto: "Fai finta di essere a una session di registrazione di qualcun altro e immagina che ti abbiano chiesto di suonare proprio questo brano, come faresti a trovare in fretta una soluzione?" E' un'attitudine che riesco sempre a sfoderare quando suono al servizio di qualcun altro, ma che talvolta dimentico quando sono alle prese con la mia musica: ascolto in cuffia attentamente quale ritmo interno è già presente nel brano e cerco di coglierne gli elementi fondamentali per rielabolarli, senza forzare il groove che ho già in testa a stringersi in quel pezzo. E così ho fatto: ho cominciato a individuare soltanto il movimento del pedale di cassa che andasse bene per quel groove, poi ho lasciato andare lo hi-hat con naturalizza. Riascoltando il sequencer e cercando di seguirlo, man mano ho costruito il ritmo a strati: finché sono arrivato al punto di sapere cosa dovevo suonare, il problema era solo scoprire come riuscire ad eseguirlo. Mi sono ritrovato a fare strani incroci con le mani, dapprima più lenti fino a raggiungere il ritmo effettivo; la parte più difficile è stata ottenere la scioltezza totale, il feeling giusto in un groove così complesso e spigoloso. Alla fine mi è venuta l'idea di usare la cassa piccola da 18 pollici, perché la timbrica del groove non era giusta: infatti usando una cassa piccola e un rullante sottile da 12 pollici ho ottenuto il sound giusto, più teso ma anche corposo perché quella cassa non ha feltro attenuatore così da avere grande risonanza. Con l'hi-hat e quattro octapads, uno per ogni battuta, il groove vive su un sound molto fluido e ricco; così la prima metà del brano è eseguita su questo kit ridotto, mentre con il break rock passo al set di batteria più imponente.
L'aspetto più sorprendente di questo brano è la naturalezza del risultato finale... Quello è il fattore più importante quando registro, impiego molto tempo con i musicisti per ottenere il groove giusto con la massima scioltezza e vitalità, anche se gli spartiti sono complicati e pieni di insidie. A partire dall'album "Symbiosis" abbiamo lavorato molto su quel concetto con tutta la band, specialmente sui tempi dispari che sono i più difficili da far scorrere; in quei casi io suono più linearmente, perché voglio che il groove esca ben chiaro, senza essere nascosto da troppi trucchi. Preferisci collaudare il materiale nuovo in concerto prima di inciderlo su disco? Lo proviamo molto a lungo, anche più del necessario, ma purtroppo non in concerto. Il problema è che con dischi di questo tipo il budget è molto ridotto: bisogna inciderlo in una settimana, più 3 giorni di prove. Il budget per un album rock da classifica, magari con canzoni basate su tre accordi, è cinque volte tanto; si possono usare tre mesi per imparare canzoni semplicissime. La mia band invece deve imparare di corsa spartiti molto complessi in tre giorni, e quando sembra aver assimilato bene la musica, una volta in sala di incisione sembra di ricominciare tutto daccapo come se non avessimo mai provato prima.
Forse perché nello studio di registrazione c'è più tensione... Credo sia perché in sala senti gli strumenti in modo diverso, in cuffia, separati in modo selettivo... una condizione molto differente dal sound live della sala prove. Cosicché dobbiamo ricominciare da capo, come se avessimo dimenticato i brani. Sarebbe magnifico incidere un disco dopo averlo collaudato con un mese di concerti, il risultato sarebbe di gran lunga migliore! Ma non succede mai, perché i label manager ti vogliono in tour solo se hai un nuovo disco da promuovere. Con "Another Lifetime" siamo riusciti ad avere una settimana per registrare e 5 giorni per mixare, una scaletta piuttosto stretta per ottenere quel sound così complicato; comunque un periodo leggermente più lungo di quanto solitamente ottengano i dischi di fusion. Io preferisco avere un periodo più ristretto in uno studio d'incisione eccellente (e perciò costoso) anziché un periodo più lungo in uno studio mediocre, perché così non ci sono tempi morti; in uno studio economico può capitare di avere un problema tecnico e magari sprecare tre o quattro ore per risolverlo. Elliot Scheiner ha tariffe alte, ma è uno dei migliori per ottenere ottime timbriche dagli strumenti; il suono della battria che riesce è fenomenale e lo fa molto rapidamente, senza bisogno di lunghe prove, gli basta un quarto d'ora. Se c'è qualche problema di timbrica, sicuramente è dovuto a come ho accordato io i tamburi. Lui riesce a catturare i suoni con una fedeltà e una potenza totali.
Aveva lavorato con te anche per "Symbiosis"? No, glielo avevo chiesto ma lui era ancora impegnato nel mixaggio di "Tambu" dei Toto: il protrarsi della lavorazione di quell'album non gli consentì di lavorare al mio disco. Steve Lukather e David Paih gli impedirono di mollare l'osso. Dopotutto anche "Tambu" era un disco che mi apparteneva, seppure soltanto in parte. Così per "Symbiosis" ingaggiai Jeff Suttcliff che in passato aveva pure lavorato con i Toto; per "Another Lifetime" sono riuscito ad avere Elliott, e lui mi ha soddisfatto in pieno perché riesce a ottenere un sound molto ricco e caldo.
Il tuo modo di costruire il funk è molto diverso dal solito grooving style dei batteristi americani. Ti ispiri ai ritmi africani? O a quali altre fonti? E' strano, perché di solito io penso al rock e alla fusion in termini prettamente americani... forse il mio sangue inglese mi dà una impronta diversa... E' vero che spesso, suonando un particolare brano, mi ispiro alle atmosfere di un genere leggerment diverso: ad esempio per "Freudian Slip" pensavo al mood degii Steely Dan, quel modo particolare di costruire lo shuffle. Certe volte mi ispiro a Grady Tate e Billy Cobham e ne faccio un misto per sviluppare il groove, altre volte penso a Lenny White...
E comunque riesci sempre ad ottenere uno stile tutto tuo... Certo, l'elaborazione finale è mia e quei mood mi servono solo come punto di partenza. Ad esempio quanto ho scritto "Kumi Na Moja" pensavo alle atmosfere dei Genesis, anche se poi il risultato finale suona estremamente diverso dal sound di quella band. Nel caso del brano "Another Lifetime" ho cercato realmente di ispirarmi a Tony Williams, per rendere evidente quell'influsso come un omaggio a un grande scomparso.
Hai suonato con moltissimi chitarristi, non solo nelle tue band ma in tutte le tue collaborazioni. Senti un'affinità particolare con quello strumento? Sì, se scrivo musica strumentale penso subito alla chitarra: per me è come se fosse la voce solista, e mi piace moltissimo l'abbinamento tra la chitarra e il sax alto, sia all'unisono che in armonia. Wendell Brooks suona il sax come se fosse una chitarra, con i glissati, il vibrato e le svisate che sono tipiche delle sei corde rock. Quando scrivo una linea melodica, la chitarra è la mia priorità; poi penso eventualmente agli unisono con il sax o alle armonizzazioni con le tastiere.
Per comporre usi in sequencer? Sì, butto giù traccia dopo traccia sulla tastiera con un sequencer Hop Pro Vision. Prima di entrare in sala d'incisione con la band, registro l'intero album a casa mia in versione demo con le tastiere e la batteria, emulando chitarra e sax con i synth. Il mio primo disco da completo solista "Protocol", che è dell'88, l'avevo inciso da solo proprio con quel metodo, è una specie di demo ufficiale (ride).
Fra tutti i chitarristi con cui hai suonato (Townshend, Jeff Beck, Steve Lukather, Al Di Meola) chi ha rappresentato la sfida più difficile? Probabilmente all'inizio Al Di Meola, perché mi ritrovai catapultato in una band affiatata che aveva già un tour alle spalle con Steve Gadd alla batteria. Stanley Clarke fece il mio nome a Di Meola per la prosecuzione del tour ed ebbi sono quattro giorni di prove per imparare un repertorio complicatissimo, brani veloci e pieni di stacchi continui. La band era già molto compatta e per me fu un compito molto difficile raggiungere così in fretta l'affiatamento con loro: inoltre non avevo mai suonato quel genere di musica dal vivo, così dovetti imparare alcuni trucchi da capo ripartendo dalle basi.
Io ti avevo visto in concerto con quella band e mi eri sembrato fenomenale... Quando arrivammo in Italia, era già la seconda branca dell'Electric Rendezvous Tour, credo nel maggio '82. Al basso c'era il grande Anthony Jackson e Jan Hammer alle tastiere fece solo alcune date, poi subentrò Philip Saisse. Sì a quell'epoca ormai mi sentivo completamente sicuro e a mio agio, ma il primo concerto a New York per me fu durissimo: non mi ricordavo i titoli dei brani, quando Al li annunciava dovevo canticchiarli mentalmente per individuarli. Un'altra sfida fu con Jeff Beck, perché dovevamo scrivere insieme materiale nuovo e non era completamente chiara quale direzione Jeff volesse prendere.
E' vero che Jeff ha un carattere un pò strano? No, lo dice solo certa gente, per me non era difficile andare d'accordo con lui. Il fatto è che Jeff è un grandissimo chitarrista ma non è un compositore né un leader di una band: ha bisogno che altri prendano l'iniziativa e traccino la direzione musicale da prendere. Scrivere il materiale per "There and Beck" fu abbastanza difficile per quei motivi.
Suonare con gli Who in grandi arene ti ha provocato particolari emozioni o tensioni? Bé, è stata una esperienza eccitante. In effetti suonavamo ogni sera di fronte a 60.000 spettatori,ma prima di allora con Mick Jagger mi era già capitato sporadicamente di suonare di fronte a platee ancora più vaste. A dirti la verità, dopo tanti anni di carriera per me è uguale suonare daventi a 600 persone, diecimila o 60mila; ci metto sempre lo stesso impegno e cerco di non farmi fregare dall'emozione, il difficile semmai è passare da una situazione all'altra adattandomi molto rapidamente.
Con quale chitarrista sei quasi arrivato a collaborare, ma per mancate coincidenze di programmi reciproci hai perso l'appuntamento? Amerei suonare con John McKLaughlin, lo stimo molto anche come compsitore; ascoltandolo ho imparato molte cose, e trovo che abbia uno stile unico. A dire la verità sono sempre stato piuttosto fortunato nella mia carriera, ho suonato con la maggior parte dei più grandi chitarristi della nostra era. Mi piacerebbe suonare ancora con Jeff Beck, lui mi chiese di partecipare al suo tour nel '95 ma purtroppo ero già impegnato con i Toto. Essere un membro stabile di questa band non mi permette di partecipare spesso a lunghi tour con altri gruppi; ma diventare un componente fisso di una rock band è una decisione appagante finché si fa ottima musica come quella dei Toto e mi resta comunque lo spazio per coltivare il mio progetto solista. Con i Toto le cose funzionano molto bene: sono molto affiatato con Steve e gli altri, e poi i periodi di lavoro intensissimo si alternano alle pause che posso dedicare ai miei album solisti.
Steve Lukather sta producendo il nuovo album di Jeff Beck: parteciperai a quel disco? Me lo avevano chiesto, ma ho deciso di rimanerne fuori: avevo già suonato con Jeff, faccio parte della band di Steve, e ho pensato che forse mischiare tutto avrebbe potuto creare tensioni. Inoltre, Jeff voleva mettere insieme musicisti per una band stabile da portare anche in tour, e io sapevo che non avrei potuto essere libero per tutto quel periodo; non mi sembrava corretto suonare solo sul disco e poi abbandonarlo col problema di trovare qualcun altro per i concerti. Così hanno preso Manu Katché che andrà anche in tour con Jeff. Steve mi aveva pure chiesto di scrivere qualche brano per loro, ma finora non ho avuto tempo per farlo; so che hanno ancora bisogno di materiale per completare il disco, ed è probabile che scriverò un paio di pezzi con Lukather.
Non hai suonato nell'ultimo album di Lukather... Abbiamo già suonato insieme in due band, i Toto e i Lobotomys, ed è bene prenderci anche qualche pausa tra le nostre collaborazioni; i noltre ero impegnato nella preparazione del mio disco. Ci sentiamo spessissimo sia per telefono, sia per posta elettronica, ma è anche importante per noi scambiare esperienze suonando con altri musicisti e imparando sempre cose nuove, così da tornare arricchiti quando suoneremo di nuovo insieme.
Il tuo ruolo di autore nei Toto sta crescendo... Sì, sono stato co-autore di tre brani nell'ultimo disco "Tambu" (tra cui lo strumentale "Dave's Gone Skiing") e probabilmente amplierò la mia scrittura nel prossimo album. Mi piace molto comporre musica, e non avrei accettato di essere membro fisso di una band senza poter contribuire alla scrittura del repertorio. Con i Toto scriviamo molte canzoni, per poterne scegliere le migliori che approdano di volta in volta sui dischi.
Invece quali sono i programmi futuri con la tua band? Abbiamo fatto una quarantina di concerti e abbiamo registrato parecchie serate. Quando tornerò in America sceglierò le migliori incisioni per un album dal vivo: ho anche nastri del tour dell'anno scorso con la band di "Symbiosis" che includeva anche Ray Russell. Potremmo fare altri concerti in alcuni festival jazz questa estate, se la tabella di marcia dei Toto mi lascerà qualche finestra libera. Dopo il disco dal vivo sarò costretto ad accantonare la mia band per un paio d'anni, finché non sarà terminato il tour mondiale dei Toto. Sarà circa l'anno 2000, e spero che nel frattempo avrò trovato uno stile ancora più nuovo ed incisivo per il mio gruppo.
Nel tuo kit, batteria Tama e Zildjian sono le costanti: qualche nuovo elemento nel tuo setup attuale? E' esattamente lo stesso del tour precedente, con l'aggiunta di una terza cassa, quella piccola da 18 pollici. La uso per quattro brani dall'ultimo disco: "Jungleeyes", "Another Lifetime", "Mountain High" e "Pov".
Quale sistema di pedali usi per controllare tre casse? E' un pedale di estensione a destra del doppio pedale. In più ho anche un altro rullante più piccolo da 12"x5,5" con struttura in bronzo: in pratica è lo stesso tipo di rullante che usavo nel 1973. Inoltre ho sei tom-tom, quattro octaban, sette piatti e due hi-hat.
Che differenza c'è tra i due hi-hat? Li usi semplicemente per raddoppiare il suono o hanno funzioni completamente diverse? Hanno timbriche completamente differenti. Uso quello da 14 pollici, Height Custom Projection, e il 10 pollici SR.
E li tieni ai due lati opposti, quindi sei ambidestro? Sì, per me non c'è nessuna differenza tra suonare a destra o a sinistra. Io scrivo con la destra, ma spesso uso anche un impugnatura da mancino per suonare la batteria. A volte cambio l'impostazione all'interno di uno stesso brano, come per "Jungleeyes" per ottenere diversi incroci.
Come sei arrivato ad essere un totale ambidestro? Ho cominciato a lavorarci su nel 1975, quando il mio drumkit ha cominciato a crescere e avevo bisogno di espandere la mia tecnica. L'ho ottenuto soprattutto facendo session d'incisione, perché in quei casi il ritmo è molto semplice e basta mantenere il groove: quindi c'è spazio per trovare nuove varianti tecniche su quei pattern semplici.
Come fai a essere così versatile e ad adattarti a generi osì diversi, pur mantenendo uno stile subito riconoscibile? Credo dipenda molto dal periodo in cui suonavo con mio padre: lui era un clarinettista molto attento al suo stile e mi insegnò come ogni genere musicale richieda uno stile da affrontare con coerenza. Dover leggere uno spartito, senza avere mai sentito una canzone e senza sapere come realmente dovrà suonare, richiede una grande adattabilità e mente aperta. Quando cominciai a fare il sessionman in sala di incisione, volevo davvero essere diverso, con un mio stile personale, pur mantenendomi fedele alle linee richieste da quella particolare canzone o band. Così esprimevo il mio carattere nei drum-fills che erano diversi dagli usuali e anche nel sound della batteria che volevo differente da quello di moda in quel periodo. Nove volte su dieci funzionava, ma mi è anche capitato di non essere richiesto nuovamente a una certa session perché il mio sound era troppo particolare; però la maggior parte della gente apprezzava la mia timbrica insolita e il mio modo di suonare.
So che qualche anno fa hai avuto problemi di salute... Nel 1995, dopo "Tambu" dei Toto e "Symbiosis" mi ammalai seriamente e dovetti restare in ospedale e poi a casa per sei mesi. Chiesi al mio amico Greg Bissonette di sostituirmi nei Toto nel tour mondiale, mi dispiacque molto rinunciare, ma mi era impossibile suonare.
Quell'esperienza ha cambiato il tuo modo di vedere la vita e la musica? Sì, mi ha fatto apprezzare di più quando sono tornato in forma, la mia attività quotidiana di musicista. L'importante per me è cercare di suonare col massimo impegno, anche quando capita una serata no. Per fortuna suoniamo ad un livello così elevato, che anche se da pignolo in qualche concerto mi sembra di aver reso di meno, il pubblico e pure i miei colleghi, sembrano non notare un calo effettivo. Ho imparato con l'esperienza a fronteggiare anche eventuali situazioni di cattivo sound ambientale, o serate difficili, semplicemente riadattandomi mentalmente a questi standard diversi e cercando di sfruttare al meglio la situazione. Naturalmente capita anche di avere serate storte, siamo esseri umani dopotutto! Ma il pubblico comunque merita sempre di avere da te il meglio, non importa se la platea sia vasta o ristretta.