Giancarlo Golzi Matia Bazar Band DrumClub Giugno 2006

Paolo Battigelli 04 lug 2016
E’ sempre un piacere incontrare Giancarlo Golzi, batterista esimio e ispirato autore di testi da oltre 30 anni nonché colonna portante dei Matia Bazar. Un piacere per più motivi. Per il carattere aperto e cordiale, l’affabilità del discorrere unita alla competenza di chi conosce nel profondo la propria materia, ma soprattutto per l’amore manifesto che ancora oggi nutre per la musica, la sua storia e l’immenso patrimonio artistico e culturale che rappresenta.

Un po’ come abbeverarsi alla fonte della giovinezza: il tempo passa ma l’entusiasmo resta intatto. Tutti ovviamente identificano Giancarlo, classe 1952, con quel monumento della musica italiana che sono i Matia Bazar; in verità le radici affondano più in profondità, alla fine degli anni 60 allorché i membri di alcune formazioni liguri post beat fondano la band La Quinta Strada presentando brani a firma Animals, Stones, e lo Spencer David Group dei fratelli Winwood. Nel frattempo il lineup si arricchisce sino a raggiungere una certa stabilità, mutando nome in Museo Rosenbach e un repertorio ora più classicamente rock composto anche da brani originali. I nostri firmano l’agognato contratto e incidono l’album Zarathustra (73), sorta di concept ...
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info intervista

Matia Bazar
Giancarlo Golzi
incentrato sull’opera di Nietzsche Così Parlò Zarathustra e il suo superuomo. Il risultato è un pop sinfonico allora di gran moda, ricercato ma alquanto pomposo, in cui i testi spesso mal si adattano alle musiche. Lavoro comunque importante nella genesi di un certo sound italiano, oggi (ri)scoperto e apprezzato forse più di allora. La band si scioglie alla fine del 1973 (da ricordare l’album Live’72, registrato nell’estate di quell’anno a Bordighera, e Rare & Unreleased, oltre un’ora di materiale inedito compreso un estratto dalla celeberrima Valentine Suite dei Colosseum), e Giancarlo Golzi entra a far parte dei Matia Bazar.

In origine sono i Jets, di cui fanno parte Angelo Sotgiu e Franco Gatti (futuri Ricchi & Poveri), Gianni Belleno (futuro batterista dei New Trolls) e Gianni Casciano: sarà proprio quest’ultimo, rimasto solo, a proporre ad Aldo Stellita (basso), Piero Cassano (tastiere, voce) e Pucci Cochis (batteria) di dar vita ad una nuova formazione, dapprima battezzata New Jet poi solo Jet. Poco dopo Casciano lascia, sostituito alla chitarra da Carlo ‘bimbo’ Marrale, e con questo lineup il quartetto si presenta al Disco per l’Estate ’71 con il brano Vivere in Te. Ma il genere melodico pare non funzionare, meglio il pop progressive dell’album Fede Speranza Carità ('72) con chitarre elettriche e tastiere in gran spolvero. Una fiammata, visto che l’anno successivo si torna alle atmosfere più orecchiabili di Anikana-o con cui si presentano al festival di S.Remo (poi riproposto oltreoceano con successo da Cerrone). Sull’album Fede Speranza Carità fa intanto la sua comparsa nelle vesti di gradita ospite una voce femminile di assoluta bellezza e personalità, destinata a interpretare un ruolo fondamentale nella storia futura del gruppo ligure.

Parliamo ovviamente di Antonella Ruggiero. Con lei in squadra tutto cambia, dal modulo di gioco al nome stesso del team: nascono i Matia Bazar. Ora con Giancalro Golzi, transfuga del Museo Rosenbach, alla batteria. L’album Matia Bazar ('76) è un successo, grazie alla splendida Stasera che sera e Io, Matia (con il ritornello in inglese) dedicata ad Antonella, la quale rifulge in tutto il suo splendore vocale . Da allora sono trascorsi sei lustri, anni in cui i Matia Bazar hanno cavalcato la tigre senza mai venire disarcionati, passando attraverso momenti felici (due su tutti, Vacanze Romane e Ti Sento) e altri più delicati, picchi creativi e album dignitosi, gioie e profondi dolori (la morte di Aldo Stellita). Divenendo un classico, capace però di rinnovarsi mostrando ad ogni incontro qualcosa di nuovo, di intrigante, di originale nel pieno rispetto della tradizione. Come dimostrano i successi recenti (terzi a S. Remo 2001 con Questa Nostra Storia D’Amore, primi nel 2002 con Messaggio d’Amore), e album eccellenti come Messaggi dal Vivo ('02) e Profili Svelati ('05). Dei membri originali oggi restano i soli Piero Cassano e Giancarlo Golzi, ma basta un fugace ascolto per rendersi conto che la magia di quei suoni è rimasta intatta.
Con Giancarlo abbiamo parlato dell’oggi e di ieri, delle origini in quel di Bordighera e dell’ anima di musicista (batterista tra
i più creativamente innovativi e tecnicamente dotati della scena italiana), dei Matia Bazar e di come, a 54 anni, l’amore per due semplici bacchette di legno e un pentagramma possa ancora regalare gioia ed emozione.

Innanzi tutto, l’immediato futuro dei Matia Bazar.
Abbiamo portato a termine la preproduzione della tournèe estiva, che inizierà tra breve, mentre, creativamente parlando, abbiamo già messo nero su bianco alcune idee che andranno a far parte del prossimo album. Non è un caso che molte prendano forma durante i soundcheck, quando ci si ritrova insieme a suonare stimolandosi a vicenda. La canzone è frutto di un lavoro di squadra, non bisogna mai scordarlo. A fine tournèe ci rimboccheremo le maniche ed entreremo in studio, dunque appuntamento nei negozi nel 2007.

L’anno scorso hai festeggiato il trentennale dei Matia Bazar. A vederti non si direbbe.
Grazie. In effetti era il maggio del 1975 quando entrai ufficialmente a far parte del gruppo, sebbene avessi già alle spalle alcuni anni di carriera musicale.

La prima formazione di un certo successo in cui militasti furono infatti il Museo Rosenbach, dopo aver esordito come Quinta Strada.
Mi spaventi, c’è qualcuno che se ne ricorda ancora. Allora ero minorenne e mio padre mi vietava di uscire la sera per raggiungere gli altri alle prove così, dopo una serie di esiti scolastici che potremmo definire non brillanti e una carriera di geometra finita ancor prima di nascere, i miei genitori si rassegnarono. Papà aveva sognato per me un futuro nell’azienda di famiglia, invece eccomi a 20 anni salutare per seguire l’istinto.

Come e quando nasce Giancarlo Golzi musicista?
Io per natura sono un istintivo, da qui la scelta quasi obbligata della batteria. Allora ci si ritrovava a parlare seduti sull’erba di un campetto di calcio ascoltando C’è una Strana Espressione nei Tuoi Occhi dei Rokes, e molto del merito va ascritto a mia sorella maggiore. Allora si usava, tra ragazze, avere scambi culturali con amiche di altri Paesi e lei era in contatto con una ragazza di Londra la quale in una lettera annotava "qui in Inghilterra sta spopolando un gruppo destinato ad avere grande successo, ne sentirete parlare presto anche voi: si chiamano Beatles e fanno una musica fantastica ". E’ stato allora che ho iniziato ad ampliare i miei orizzonti, a cercare altrove qualcosa di nuovo; e il fatto di vivere vicino alla frontiera con la Francia ha fatto il resto: brani come Good Vibrations dei Beach Boys, These Boots Are made for Walking di Nancy Sinatra e Paint It Black degli Stones in Italia erano assolutamente sconosciuti mentre oltralpe già nei negozi e ascoltati dai giovani. Ricordo distintamente che Satisfaction corrispondeva a tre bidoni di Dixan fasciati con carta lucida, quelli usati per costruire la mia prima batteria. La prima "seria" invece l’ho avuta ai tempi del Museo Rosenbach, una Ludwig meravigliosa. Allora le batterie principe erano Ludwig, Premier e Rogers: ti sentivi arrivato quando potevi permetterti una di queste. Altrimenti, nessuno me ne voglia, potevi optare per le Hollywood o le Meazzi. Questi erano gli anni '60.

Sei autodidatta?
Il classico "absolute beginner", un assoluto autodidatta. Mi associo in questo al grande Satchmo, che soleva dire "le note sugli spartiti sono per me come cacche di mosca". Ovviamente anch’io ho avuto i miei miti, tre su tutti : Bobby Colomby dei Blood Sweat & Tears, per la sua velocità senza far ronzare le bacchette; Michael Shrieve, per l’impeto e l’energia che caratterizzavano il suo stile debordante, e Mitch Mitchell a cui un giorno o l’altro dedicherò un altarino. Di Bobby ho sempre apprezzato la precisione, il sapersi inserire in un discorso musicale colto e raffinato che possiamo etichettare come esordio del fusion, di un jazz annacquato se vuoi ma di forte impatto come il repertorio dei BS&T. Per di più con in formazione autentici mostri come Al Kooper, Steve Katz alla chitarra e il grandissimo David Clayton-Thomas alla voce, il quale ricorda molto lo stile vocale di Piero Cassano. Su Shrieve è stato detto e scritto già tutto: il calore del ritmo, la fonte del suono, l’energia muscolare sposata ad una grande creatività che ne fanno ancor oggi un maestro la cui classe non è in discussione. Ascoltando lui e Coke Escovedo ho preso confidenza con le percussioni, un riferimento prezioso. Mitch Mitchell infine perché… è Mitch Mitchell. Una ritmica, quella formata con Noel Redding, sempre sottovalutata perché offuscata dal carisma e la debordante personalità di quel chitarrista…come si chiama?. Devi sapere che il papà del bassista del Museo Rosenbach, l’avvocato Moreno, era assai famoso e assisteva personaggi illustri come Yul Brynner e Marcello Mastroianni; un giorno, di ritorno da New York, ci portò Are You Experienced di Hendrix, un album dello Spencer Davis Group con Steve Winwood e il primo album dei Procol Harum, quello con A Whiter Shade of Pale. Cose letteralmente dell’altro mondo. Tu pensa che tipo di cortocircuito può provocare il loro ascolto in un 17enne; quando li mettemmo sul piatto la nostra testa partì per la tangente. Tornando ai miti, questi tre sono stati i miei maestri, i miei guru, e ancor oggi riascoltandoli mi emoziono.

Hendrix suonò anche in Italia. Andasti a vederlo?
La tappa più vicina era Milano, ma una simile trasferta non me la potevo permettere. Ancor oggi, se ci penso… Anni incredibili, che sono continuati toccando forse l’apice agli inizi dei '70. Il più bel concerto a cui ho assistito è stato quello dei Jethro Tull di Aqualung con i Gentle Giant come supporto.

Torniamo alla batteria. Fu il primo amore?
Si, perché sono sempre stato un pigro e un istintivo: uno che si lascia trasportare dalle manifestazioni emozionali più elementari, quasi a livello scimmiesco. L’uomo primitivo, per prima cosa, percosse con un osso un oggetto per trarne un suono inventando la percussione. Inoltre, fu una scelta quasi obbligata all’interno del gruppo visto che Alberto Moreno aveva studiato pianoforte e suonava il basso, Enzo Merogno era innamorato della chitarra e Pit Corradi era nato tastierista. Non ho fatto altro che seguire l’istinto e coltivare la passione per il ritmo. Comunque nel mio peregrinare per il mondo con i Matia Bazar mi sono comprato praticamente di tutto, quasi a riscattare il senso di colpa per non aver studiato strumenti "più importanti": da qui le Telecaster, le Les Paul, il PBass Fender, l’organo Hammond con tanto di Lesile. Non che sappia suonare tutto, ma li tengo lì a mo’ di oracolo, un Buddha da adorare.

Museo Rosenbach, per alcuni il più bel nome di un gruppo italiano.
Sono d’accordo. Rosenbach era un vecchio collezionista di libri tedesco e con le sue raccolte ci misero su addirittura un museo. Fu Alberto Moreno, autore dei testi della band, a sceglierlo. Ricordo che allora, ai tempi dell’uscita di Zarathustra, avemmo dei problemi perché scambiati per un gruppo di propaganda reazionaria e dunque osteggiati a livello promozionale e di partecipazione a manifestazioni e festival musicali; questa fu la sfortuna/fortuna dell’album, perché se ne parlò per mesi interi. Oggi le sue quotazioni sul mercato del collezionismo (parlo dell’edizione in vinile ovviamente) hanno raggiunto cifre da capogiro, sui 500 euro.

Che poi è sufficiente andare in Giappone per (ri)trovarlo nei negozi.
I giapponesi si sono innamorati di quel periodo musicale ristampando tutti i gruppi di allora. Un giorno sono a Tokio in promozione e mi trovo negli uffici del direttore della King Rec., il quale mi invita a seguirlo perché ansioso di mostrarmi l’orgoglio della sua casa discografica: lungo il corridoio fanno bella mostra di sé le copertine degli album prog di quegli anni, dal Balletto di Bronzo ai Latte e Miele al Biglietto per l’Inferno, sino alla sala riunioni dove troneggia il Museo Rosenbach. "Vede, questo è il nostro capolavoro", mi confida con sussiego tutto orientale. Al che non riesco a trattenermi e rispondo: "Vede, io faccio parte di quella formazione". E’ impazzito! Per tornare a bomba diciamo che il Museo Rosenbach mi ha permesso di studiare lo strumento in maniera approfondita, costruendo quel bagaglio tecnico a cui attingo ancora oggi. Devi capire che sono stati anni dedicati interamente alla musica, sette ore quotidiane di prove e studio rinunciando a tutto ciò che un ragazzo di 17 anni può desiderare: sport, svaghi, a volte anche donne. Una scaletta rispettata in maniera rigorosa, che non ammetteva deroghe. Dopo sono maturato e ho capito che la musica era anche altro. Un colpo di rullante dato con un peso incredibile e una precisione mostruosa alla Nigel Olsson (il batterista di Elton John), quello era il vero colpo di rullante.

E sul versante jazz, diciamo Gene Krupa o Tony Williams?
Non è quello il mio campo. Però alcuni anni fa mi sono innamorato di Mike Stern, che come ben sai non è un batterista. Nutro un amore smisurato per la sua musica, da tempo colonna sonora dei miei viaggi in macchina, perché è la chiave di volta per capire la tecnica messa nelle orecchie dell’ascoltatore non attraverso la violenza o il tocco ricercato ma con dolcezza, riuscendo ad esprimere cose delicatissime in maniera diretta. Prima la melodia nella sua purezza di linguaggio, poi la tecnica. Sono anche andato ad applaudirlo dal vivo, tempo fa, assistendo al soundcheck come un qualsiasi fan. Indossava un lupetto nero e imbracciava la fedele Telecaster, mi ha guardato e ha sorriso concedendomi un autografo. Una persona squisita. Con lui mi arriva l’umanità, il sentimento sposato alla tecnica: solo la tecnica mi lascia freddo. Dici "che mostro", poi però passi oltre.

Quando entri a far parte dei Matia Bazar, il gruppo esiste già?
Non esattamente. Esistevano i Jet ed esisteva Matia, un’artista prodotta dai Jet che avevano scritto per lei un singolo Io, Matia. Brano che fu blindato perché subito dopo alla casa discografica venne l’idea di mettere insieme queste due entità musicali creando ex novo i Matia Bazar. Idea non condivisa dal batterista di allora, che decide di dare forfait. E qui subentro io. Come sai la Liguria non è poi così grande e ci si conosce tutti; avevo fatto amicizia con i Jet in occasione di alcuni concerti a S.Remo e dintorni, e di tanto in tanto ci si sentiva. Poi li rincontrai durante il servizio militare nella caserma di Bolzaneto (Genova): una sera scappai scavalcando il muro dell’ospedale del distretto insieme al cantante dei Rosenbach Stefano Galifi per andare alla sala prove dei Jet a Sturla. Quella sera suonammo insieme, e fu allora che mi chiesero di far parte di un nuovo progetto che sarebbe nato di lì a qualche mese (era novembre, i Matia nacquero poco dopo). Dissi che ci avrei pensato e lasciai il mio numero di telefono. Puntualmente si fecero vivi a maggio ('75): il venerdì sera terminai il servizio militare, il sabato mattina mi contattarono, parlammo e il lunedì successivo feci la borsa e li seguii a Roma per registrare una trasmissione musicale. Da allora devo ancora tornare a casa.

Qual è stata la prima batteria usata con i Matia Bazar?
La Ludwig che avevo portato in dote, poi venduta per acquistare strumenti più importanti: in pratica sacrificata sull’altare dei Matia Bazar. Si trattava di una Ludwig d’annata che oggi pagherei per avere ancora. Passai poi ad una Meazzi, marchio che mi offrì, anche grazie al successo del primo singolo, una sponsorizzazione andando per una volta contro l’egemonia giapponese. Una bellissima batteria tutta montata su tralicci, diventati di moda dieci anni più tardi. La cassa era montata su binari di modo che potesse scorrere orizzontalmente e sopra, al posto del perno che sosteneva i due coni, erano piazzati due perni che reggevano due binari orizzontali dai quali si diramavano i bracci dei tom: in pratica entravi in scena con un movimento orizzontale. Ti portavi i charleston e il seggiolino ed eri a posto. Purtroppo stampi e materiali erano quelli che erano, non competitivi con i giapponesi. L’ho tenuta per circa tre anni. Non scordiamoci poi che fu la Meazzi a inventare il "perno a sfera", idea poi sviluppata dalla Yamaha nel classico "snodo". Un’altra trovata fu il "timpano a pedale". Sulla pelle inferiore erano collegate delle stecche, lamine le quali, pigiando sul pedale posizionato sotto, tiravano o rilasciavano la pelle a mo’ di suono sinfonico. Non ne ho cambiate molte nel corso della mia carriera, oggi suono una Yamaha, semplice ma assolutamente funzionale.

Il tuo ruolo all’interno dei Matia è duplice, batterista e autore di testi.
Non scrivo musiche ma mi piace molto volare con la lingua quando scrivono Piero e gli altri, dunque intervenire sugli arrangiamenti. Come autore poi, nel 2003, mi è stato affidato il delicato compito di tradurre i testi in italiano e di curare la direzione artistica del musical italo francese I Dieci Comandamenti; lavoro per il quale ho ottenuto il premio Lamezia Terme come miglior paroliere.

Nel corso degli anni i Matia hanno cambiato molte voci.
In effetti, verso la fine degli anni '80, Antonella ha preferito intraprendere altre strade artistiche sostituita dalla bravissima Laura Valente (ex corista di Mango), Silvia Mezzanotte e oggi Roberta Faccani (già protagonista del musical Rent e di Pinocchio) dotata di una straordinaria estensione vocale, ben tre ottave.

La formazione originale è durata 14 anni ('75/'89), com’erano i rapporti interpersonali?
Ottimi. La forza dei Matia è sempre stata quella di avere cinque caratteri differenti, cinque teste pensanti e riuscire comunque ad incastrarli come tessere di un puzzle. Ognuno con un compito ben preciso e responsabilità ben definite. Poi è chiaro che esigenze di vita e il fatto di crescere maturando interessi diversi hanno fatto si che qualcosa cambiasse.

Pensando ai Matia la prima canzone che viene in mente è Vacanze Romane. Come nacque?
Arrivati a Roma circa alle tre di notte, reduci da un concerto e in attesa di registrare un’apparizione televisiva il giorno seguente. Piove, la città è deserta e l’asfalto lucido per la pioggia riflette la luce dei lampioni; il nostro manager, l’architetto romano Lorenzo Piccini, propone di fare un giro: meta, un posticino dove gustare i bomboloni all’alba. Così attraversiamo Trinità dei Monti e Piazza di Spagna sotto una pioggerellina battente, avvolti in una quiete irreale. Sembra un luogo magico. Tutto appare come trasfigurato, dimensioni e prospettive completamente mutate mentre lui ci spiega, da architetto romano di vasti orizzonti culturali, fatti e curiosità legate a questo o quel monumento. Insomma, i bomboloni diventano l’ultimo dei nostri pensieri. Nasce allora l’idea di parlare di questa Roma, che per una volta eravamo riusciti a godere appieno ammaliati dal suo fascino; come sospesa prima che il chiacchiericcio del quotidiano se ne impadronisse. Per paradosso una sorta di vacanza, da lì Vacanze Romane.

Che musica ascolti oggi?
Non seguo più la parte tecnica, la musica è un arredamento della mia vita dunque non deve darmi fastidio: né troppo futurista né eccessivamente rètro. Così porto sempre con me il mio iPod, o comunque il mio computer, su cui ho assemblato una sorta di ideale colonna sonora della mia vita. Dai Beach Boys di Good Vibrations a David Gilmour di On an Island. Diciamo che il massimo dell’unione tra tecnica e linee melodiche sofisticate restano Donald Fagen e Walter Becker, adoro gli Steely Dan.

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