MIKE BORDIN, Faith No More

Eugenio Palermo 30 ago 2022
Ha suonato con miti assoluti del basso come Geezer Butler e Cliff Burton, e mostri sacri come Robert Trujillo, Fieldy e Les Claypool, ma Mike Bordin ha trovato in Bill Gould il suo gemello ritmico, costituendo insieme l’eclettico e micidiale motore dei Faith No More, la più schizofrenica, temeraria e sarcastica band degli anni ‘90, matrice del crossover metal a cavallo dei due millenni, protagonisti nel 1992 del capolavoro "Angel Dust".

San Francisco non è una città come le altre. Non può esserlo, con il suo Golden Gate che si staglia fra le sue perenni brume, abbracciando la sua omonima Baia e l’Oceano Pacifico, e da cui si scorge il mitico scoglio di Alcatraz, con le iconiche cable-car che scendono giù a rotta di collo da Russian Hill, con le multicolorate case vittoriane del quartiere di Haight-Ashbury, lì dove misero radici gli scrittori della Beat Generation, ma anche Hendrix e la Joplin, e dove è sorto il movimento hippie e la Summer of Love con le sue utopie di uguaglianza e pacifismo spinte dai concittadini Grateful Dead e Jefferson Airplane a suon di psichedelia ed LSD.
Una metropoli a misura d’uomo, dove le diversità sono un vanto, colta ...
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e tecnologica con l’Università di Berkeley e la Silicon Valley ad un tiro di schioppo. Ecco perché solo a San Francisco potevano nascere i Faith No More, la band crossover per eccellenza.

Inclassificabili, spiazzanti, intelligenti, spericolati, oltraggiosi, una delle band che meglio ha rappresentato il folle melting-pot musicale degli anni ‘90, quando caduti i muri della storia fra i popoli sono caduti quelli musicali fra i generi. Ma i Faith No More avevano iniziato una decina di anni prima, cricca squinternata e variegata come poche, messa e tenuta su da Mike Bordin (batteria) e Bill Gould (basso) una delle sezioni ritmiche più originali e potenti di sempre.

MIKE BORDIN FORGIA IL SUO STILE
Michael Andrew Bordin nasce a San Francisco il 27 novembre del 1962. A casa Bordin, di chiare origini venete, il giradischi passa ininterrottamente Puccini, Wagner, Prokofiev ed al piccolo Mike ogni tanto tocca anche vestirsi bene per andare all’Opera. Ma sono gli anni dei Beatles e dei Rolling Stones e quando il padre porta a casa Revolver, Mike glielo consuma letteralmente.

Ma niente in confronto ai Black Sabbath. Masters Of Reality è roba potente e tenebrosa, quella è la Sua musica. E gli salverà la vita. All’età di dieci anni perde la madre e questo lo fa deragliare, ma mai irrimediabilmente. Perché quel dolore che gli scoppia nel petto trova una valvola di sfogo nei watt sempre più esagerati di Iommi, Page, e nell’amicizia con un coetaneo spilungone e carismatico, duro come il cuoio ma dal cuore grande come il Pacifico: Cliff Burton.

Mike e Cliff si conoscono a scuola, legano subito di brutto, sono entrambi ribelli e freakettoni e l’amore per i Sabbath suggella quel legame fraterno. Cliff ha studiato pianoforte, ascolta jazz ma diavolo, vuoi mettere Paranoid? In uno di quei pomeriggi passati insieme ad ascoltare musica, mentre Sabotage pompa riff di catrame, Cliff salta su: “Suonerò il basso, amico!” “Bene! Allora io la batteria!” Sembra una smargiassata fra ragazzetti, invece sarà l’inizio di tutto. Ne combinano parecchie quei due teppistelli di periferia, Bordin che a quindici anni prende di nascosto l’auto del vicino per andare a vedere i Sabbath o gli strappi raccattati per andare al Winterland dove i due sono di casa (non proprio l’ambiente adatto per due ragazzetti) e vedono i Sex Pistols, l’altro shock sonico che segna la rotta di Mike.
Ovviamente mettono su una band, gli EZ-Street, insieme al chitarrista Jim Martin, ma poi le loro strade si dividono. Cliff farà speed metal nei Trauma e segnerà la saga dei Metallica.

Il burrascoso Mike verrà mandato in collegio per raffreddare i bollenti spiriti, dove si avvicinerà al jazz di Tony Williams, per poi andare a Berkeley. Lì si farà un paiolo così andando a lezione da Chuck Brown (maestro di Shrieve e Bozzio per intenderci) e poi dal percussionista ghanese CK Ladzepko, capace di suonare una trentina di strumenti con piedi, gomiti, mani e di cantare ritmi diversi. Due figure, Brown e Ladzepko, che stravolgeranno il suo approccio. Il primo gli suggerirà l’impostazione open-handed, con quelle braccia mai incrociate ma tenute larghe per avere più ampiezza, libertà e botta come il suo mito Bill Ward (Black Sabbath). Il secondo lo illuminerà sul ritmo, sulla world music. Entrambi poi saranno decisivi nella strutturazione del suo drumkit da destrorso pur essendo un mancino, con quel ride e i piatti a torreggiare alla sua sinistra e due tom grandi come secchi messi bassi e perfettamente orizzontali, dominanti nei suoi groove potentissimi ed efficaci.

La tribalità urbana di Paul Ferguson, i tom ossessivi di Kenny Morris e il tocco atipico dello sfortunato Pete DeFreitas aiuteranno il giovane Mike a rompere gli schemi e costruire il suo sound. Un sound che s’impasterà alla grande con il suo storico sodale Bill Gould.

NASCONO I FAITH NO MORE
Nel 1981 Mike e Gould si conoscono rispondendo ad un annuncio degli Sharp Young Men, prendono le redini della band mutandola in Faith No Man fino all’ingresso di un amico d’infanzia di Gould, il tastierista Roddy Bottum. È il 1983 e il terzetto opta per il monicker Faith No More.
Dopo Courtney Love, all’epoca fiamma di Bottum, il ruolo di frontman lo prende un amico di quest’ultimo, Chuck Moisley, figlio adottivo ma di origine nativa, afro-americana ed ebrea, carismatico e problematico come pochi. Jim Martin, raccomandato da Cliff Burton in persona, completa la formazione. Bordin inizia a farsi crescere i dread ed il barbuto Martin gli stampa addosso il soprannome Puffy.
Puffy deve dare il ritmo ad un’allegra famiglia disfunzionale: Gould è un punk patito di Gang Of Four, The Fall e Joy Division ma cresciuto a Bowie, Parliament e Funkadelic; Bottum un pianista classico fulminato dai Run DMC; Martin un thrasher duro e puro; Mosley è tormento sublimato fra rap e new wave.

Sono anni frenetici in California. Il post-hardcore losangelino di Black Flag e Fear ed il thrash della Bay Area di Metallica ed Exodus stravolgono fin nelle budella il rock duro, influenzandosi a vicenda. I Faith ne risentono nel tono incandescente di Martin mescolandole con quel piglio pop che le ariose tastiere di Bottum e il lamentoso rappato di Moisley portano in dote, mentre Gould e Bordin pulsano un battito new wave pesante come cemento armato.
La band bazzica il circuito punk-hardcore ma le categorizzazioni le sputa via.

Pagando di tasca propria registrano cinque pezzi del loro imminente debutto, riuscendo ad ottenere l’attenzione della neonata Mordam Records che finanzia il resto. We Care A Lot (1985) è un cazzottone pieno zeppo di spunti interessanti, forse anche troppi. Il disco non fa centro ma la Slash crede in loro e nel 1987 pubblicano Introduce Yourself. Ora il discorso si fa interessante. Il folle post-hardcore di Bad Brains e Fear s’impasta con l’avanguardia dei P.I.L. e Theater Of Hate, la dark wave nella sfasata e drammatica intonazione di Mosley, mentre la sezione ritmica trascina in un solidissimo funky rap metal.

Stravaganti e coloratissimi, ognuno con la propria esuberante presenza scenica che buca video e palco. Anche troppo. Mosley è spesso fuori fase, annebbiato dalle sue dipendenze e quindi pesantemente sui coglioni ad una band ambiziosa che vede passare il treno del successo. Scazzottate, abbiocchi etilici on stage: per Gould, con ‘sto matto non si va da nessuna parte e molla il colpo, seguito a ruota da Puffy. Bottum e Martin fanno lo stesso. In pratica, Mosley è messo alla porta senza che nessuno glielo abbia detto.
Martin pesca il coniglio dal cilindro, ricordandosi di quello svitato che gli ha lasciato il demo della sua band di svitati, i Mr Bungle. Mike Patton viene dalla piccola Eureka, ha vent’anni, fa il commesso, vive ancora con i genitori e non ha mai toccato un goccio d’alcol: quanto può durare con quei consumati teppisti? Invece, in soli dodici giorni lo sbarbato entra in studio già con i testi e le melodie pronti per i pezzi del terzo album dei FNM, l’ultimo proiettile in canna rimasto, visto che neanche il precedente disco ha fatto centro e la Slash non ha soldi da buttare.

Nel giugno del 1989 The Real Thing esce in sordina esplodendo l’anno dopo, trascinato dall’irresistibile rap del singolo Epic, heavy rotation su MTV. La violenta collisione fra rap e rock era già stata fatta dai Run DMC e poi dai Beastie Boys, per non parlare di Fishbone e Red Hot Chili Peppers, fino alle spettacolari collaborazioni fra Aerosmith e gli stessi Run DMC o di Anthrax e Public Enemy che avevano abbattuto definitivamente i muri.
Ma i FNM vanno oltre. La band fa letteralmente scuola, armeggiando rap, funky, pop, progressive, metal, grunge senza nessun ritegno e diventando il nome caldo del cosiddetto crossover incarnato dai padrini dell’alternative metal, i Jane’s Addiction.
Il disco vende quattro milioni di copie e i FNM partono per il colossale tour mondiale dell’accoppiata di pesi massimi Guns N’ Roses e Metallica. È una ventata d’irriverenza che travolge le imbalsamate rockstar degli anni 80, Axl Rose incluso.

Proprio Patton si prende la band con il suo carisma beffardo, il suo ecclettismo schizofrenico, il suo sarcasmo tetro. Approfittando del clamore suscitato, riesce anche a far debuttare i suoi bizzarri Mr Bungle e l’irrequieta vena sperimentale lo porterà ad aprire innumerevoli progetti collaterali (Tomahawk, Fantomas, Peeping ToM, Mondocane) e stravaganti collaborazioni (Bjork, Zorn, Morricone, Roy Paci, Melvins, Dillinger Escape Plane) oltre che la sua etichetta musicale Ipecac.

Dopo due anni in tour, i FNM entrano in studio con l’enorme pressione di chi vuole un The Real Thing 2, la Slash in primis. La band se ne strafotte. La formula è sempre la stessa: l’input parte dal basso dominante di Gould e/o dal groove ficcante che Bordin indovina sempre, con gli altri a ruota. Ma questa volta Patton partecipa pesantemente alla scrittura e ciò destabilizza una band di galli da combattimento. Martin, notoriamente musone misantropo, non gradisce e lo fa capire palesemente. Definirà l’album gay-disco e l’anno dopo la band lo licenzierà con un fax. Dal canto suo, Bottum scioccherà facendo outing, prima rockstar a rompere il tabù dell’omosessualità. Ma Angel Dust è il capolavoro dei FNM, altroché.

ANGEL DUST
Una rock opera ambiziosa, barocca, progressiva, potentissima, dalla complessità stordente, inquietante, disorientante, suonata e arrangiata da musicisti con le palle, con un’anima dark teatrale e sadica che l’adolescenziale predecessore non aveva.
Angel Dust è l’album che sfancula definitivamente le regole del rock mescolando tutto, dimostrando che si può essere pesanti senza essere heavy metal, indicando la strada al nu metal dei vari Korn, Deftones, Tool, Incubus e poi Slipknot, Limp Bizkit, Dillinger Escape Plane, System Of A Down.
I vertici della Slash invece lo definiranno un suicidio commerciale: “Spero non abbiate comprato casa”, ringhierà il boss. L’album non ha singoli trainanti e la band è costretta a ripiegare su una cover (Easy di Lionel Ritchie), giusto per andare di traverso ai metallari che avevano conquistato con la mastodontica cover di War Pigs, scelta all’epoca per disorientare i loro fan post-punk. Idea strampalata e vincente ma in patria venderanno “solo” 700mila copie furoreggiando invece in Europa, arrivando comunque a tre milioni nel mondo.

Una bipolarità ostica da digerire, ben rappresentata dallo scandaloso titolo (Angel Dust è anche il nome di un potente allucinogeno, del resto Frisco è la patria dell’LSD) e dall’artwork scelto (l’altera garzetta bianca davanti e la mucca macellata sul retro della copertina) che unisce l’aggressività più disturbante con il mood più rilassato.

Impressionante la performance di Patton che desta il sospetto che quella frivola voce nasale sul precedente The Real Thing sia stata una solenne presa per i fondelli. Un’estensione ed una poliedricità vocale portentose, un’interpretazione alla Leopoldo Fregoli che gode come un riccio nel distruggere lo stilema del rock-singer e smerdare i pigri conformismi dell’uomo medio, nel suo nulla esistenziale fatto di cartellini da timbrare e cani da portare fuori, matrimoni in Chiesa e amanti in ufficio, fino allo schianto nell’inevitabile crisi di mezza età, il tema portante dell’album.
Midlife Crisis è infatti il primo singolo estratto, strofa dai nervi tesi e coro che ti esplode in faccia, la celeberrima intro tribale di Bordin e le tastiere mozzafiato di Bottum. L’opening Land of Sunshine invece è un gorgo funky che ti risucchia giù, dal chorus circense e le risate folli di Patton.
I tempi dispari primitivi di Bordin asfissiano la poderosa e drammatica Caffeine, l’angosciante Smaller And Smaller vola su un tappeto orientale così possente da immaginarsela consumata dai Mastodon, griffata da un Bordin stra-tos-fe-ri-co. Le più radiofoniche Small Victory, Everything’s Ruined, Kindergarten incrociano metriche rap, riff abrasivi, chorus che vanno al cielo, tastiere pop ed una sezione ritmica elastica e micidiale. La violenza nonsense delle ultra-bombardate ed agghiaccianti Malpractice e Jizzlobber ricordano invece che i Faith No More sanno essere più pesanti dei Melvins, con uno sfrontato Patton che passa dal death metal a Layne Staley in un niente. E il coretto cheerleader nella pornografica Be Aggressive, dopo quell’organo draculesco e quel basso funk-astico? E il Patton crooner gigione in RV? Ma poi Crack Hitler che diavolo è? Inutile impazzire ad etichettarli, qua c’è solo da raccogliere la mascella.

Bordin e i suoi groove saranno punto di riferimento amatissimo negli anni 90. Un guerriero dalla criniera rasta lunga fino alla schiena, bicipiti a vista, guanti per impugnare le bacchette al meglio ed un drumkit extralarge, proprio di chi va in battaglia: la pacca enorme sul suo rullante enorme, uno Yamaha in rame, i suoi tom orizzontali percossi in una possente danza di guerra, i suoi inconfondibili flam avvitati al basso-cannone di Gould, le dinamiche e le ghost notes sempre funzionali. Insomma, tanta botta e poche palle. (Ozzy lo vorrà per un decennio a far coppia con Trujillo nella sua band e i Korn come sostituto del fratturato Silveria per un centinaio di date).

IMPLOSIONE
I Faith No More imploderanno nel 1998 sotto il peso delle loro personalità enormi e dopo altri due ottimi album, per poi ripensarci nel 2009 (ma senza il risentito Martin che preferirà la sua coltivazione di zucche (!) e piazzare nel 2015 il convincente Sol Invictus. A sessant’anni Puffy è quindi ancora on the road. Perché chi viene da San Francisco come lui, come Cliff Burton, non può essere come gli altri…


Yamaha Oak Custom drumkit
Cassa 18”x24” – Tom 14”x12” e 15”x13” – Timpano 18”x 16” – Rullante 6,5”x14” Mike Bordin Signature (fusto in rame, spessore 2 mm)

Zildjian cymbals
15” Hi-Hat A Custom, Mastersound HiHats – 19” K Medium Thin Dark Crash – 20” A Zildjian Medium Crash – 21“ A Zildjian Sweet Ride – 22” Z Heavy Power Ride – 19” K China – DW 5000 Delta Series (doppio pedale con trasmissione a cinghia –

Pelli Remo – Bacchette Vic Firth Rock

MIKE BORDIN – quotes

Dal momento in cui ho iniziato a suonare è stata un’ossessione, è stato qualcosa che mi ha tenuto fuori di guai e dal prendere la direzione sbagliata. La prima volta che ho visto Ozzy gli ho detto: “non mi conosci, ma i Black Sabbath mi hanno salvato la vita”

I miei flam sono sempre un po’ aperti, la mia impronta digitale. Un flam è come un pugno che ti colpisce in faccia, è come scrivere tutto in maiuscolo, per me è un modo per punteggiare o accentuare un ritmo del rullante. I miei flam suonano bene con la fisicità con cui Bill [Gould] suona il basso.

Non sono veloce, o suono troppe note e fill fuori dal normale, ma di certo è BAAAAAAM!!! Il mio suonare aperto senza incrociare le braccia ha determinato i miei beat potenti, come Ward, Powell, Bonham, volevo essere come loro, avere la loro potenza.

La mia etica è quella del punk-rock, del do-it-yourself. Musicalmente mi sento tanto i Black Flag, quanto i Black Sabbath. Bill Ward è la mia ispirazione. Lui non è cresciuto con Hendrix, è di una generazione più vecchia, lui è cresciuto ascoltando i grandi dello swing, come Paice, Bonham, Powell, è lo swing che rende unici gli album dei Sabbath, ed è quello che ho cercato di fare anch’io.

Mi hanno insegnato la matched grip [impugnatura] così che suonare aperto non è mai stato un problema per me. Fin da piccolo cercavo la potenza sulla batteria che avevano Ward, Bonham, Paice, Powell. Prendi il booklet del cd “Vol. IV” dei Sabbath, troverai una foto di un concerto di Birmingham dove Ward è con le braccia al cielo pronto a colpire. Un’immagine che rappresenta la potenza e il mio modo di picchiare sui tamburi.




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