Joe Chambers mette assieme il suo consumato talento di batterista, vibrafonista, pianista, compositore e band leader; lo mescola al suo background fatto di jazz e feel, e pubblica Samba De Maracatu, un album che, nonostante il titolo, ben poco ha a che fare con il popolare genere brasiliano, ma che adotta tale appellativo riferendosi alla giocosità del suo fare musica, ancora oggi… a ben 79 anni di età!
È nato nel 1942, Joe Chambers, a Chester, nella Pennsylvania statunitense ed il suo è un excursus che parla da solo. Nel 1970 è parte degli M’Boom di Max Roach, con cui registra quattro album. In quel decennio suona inoltre con Sonny Rollins, Charles Mingus, Tommy Flanagan e Art Farmer, le figure più promettenti della scena jazz di allora. Alla fine dei Settanta fonda un ensemble con Larry Young (organista), mentre nei primi Ottanta registra con le diverse lineup capitanate da Chet Baker (tromba) e Ray Mantilla (percussioni). Archie Stepp, Miles Davis, Andrew Hill, Bobby Hutcherson, Joe Henderson, Chick Corea, Eric Dolphy, Freddie Hubbard, Jimmy Giuffre, sono soltanto alcuni dei successivi artisti con cui Joe Chambers suona e registra.
Numerosi gli album a nome Joe Chambers nel
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corso del tempo: da TheAlmoravid del 1974 (con Woody Shaw alla tromba), passando per Phantom Of The City (1991), fino a Landscapes del 2016 (con l’intervento di Ira Coleman al basso e Rick Germanson al pianoforte). Oggi, a distanza di cinque anni, si aggiunge Samba De Maracatu, uscito lo scorso marzo 2021 su Blue Note.
In Samba De Maracatu Mr. Chambers inserisce brani classici, standard intramontabili e composizioni originali, il tutto mirato alla ricerca di soluzioni ritmiche e armoniche non necessariamente legate ad un solo stile. Si tratta di una ricerca che non si pone limiti e che, mescolando atmosfere post-bop con ritmi esotici di varia provenienza, dimostra quanto Joe Chambers non smetta di reinventarsi e di divertirsi a suonare a tutt’oggi, alla sua non più giovane età.
Accompagnato al piano da Brad Merritt e al basso da Steve Haines, e con gli interventi vocali di Stephanie Jordan e l’inaspettato rap di MC Parrain, in Samba De Maracatu Mr. Chambers sfodera una serie di arrangiamenti inusuali sedendosi non solo dietro i tamburi, ma ponendosi anche – e soprattutto – nelle vesti di vibrafonista.
“Ora mi considero soprattutto un vibrafonista, un mallet player... Specialmente in questo album, l’accento l’ho messo proprio sul vibrafono... Suono anche la batteria e le percussioni, certo, ma… I’m the vibe player!”
Samba de Maracatu – lineup Joe Chambers (drums, vibraphone, conga, claves, guiro, cowbell, surdo, repinique, shakere, quica) – Brad Merritt (piano, synth) – Steve Haines (bass) – Stephanie Jordan (vocalist) – MC Parrain (rap vocals)
Ciao Joe, è un onore averti qui con noi... Ciao. Grazie a voi per ospitarmi su queste pagine!
Questo tuo ultimo lavoro ha un titolo intrigante, Samba de Maracatu. Apre proprio con questa traccia e va a chiudersi con Rio... Il richiamo al Brasile è evidente ma la musica non si rifà propriamente alle sonorità tipiche del samba... Sì, hai ragione. Non è proprio un album di samba jazz allo stato puro... Direi piuttosto che l’influenza dello spirito brasiliano sia più una sorta di rifinitura, uno strato aggiuntivo alla natura jazz dei vari pezzi. Anche lo stesso brano Samba de Maracatu non riprende fedelmente la pura forma del ritmo maracatu tradizionale, ci sono anche contaminazioni di guaguanco cubano, mentre l’atmosfera è decisamente jazz. E' una specie di contaminazione. Sono sempre stato attratto dai ritmi e dalla musica sudamericana, Porto Rico, Brasile e anche Cuba... Steve Berrios e Ray Mantilla, con il loro importante contributo al jazz sound, sono stati tra i musicisti che più mi hanno influenzato e coloro che mi hanno fatto conoscere la natura di quei ritmi: mambo, rumba, guaguanco... Così ho provato a portare avanti quel discorso e integrare elementi tradizionali dei ritmi sudamericani con quelli tipici della musica jazz.
Ti capita mai di andare a investigare anche la musica tradizionale di altri paesi: Asia, Africa, Europa...? Assolutamente sì, è un tipo di ricerca che mi interessa parecchio. Tornando ai ritmi brasiliani, mi ha intrigato molto il lavoro svolto da un ragazzo, Scott Kettner, che è stato anche studente alla New School for Jazz and Contemporary Music. [Joe Chambers è un docente di questa scuola] Lui si è concentrato parecchio sul maracatu, trovando una chiave per compararlo e integrarlo con il New Orleans Two-Way-Pocky-Way... Un lavoro molto interessante, che mi ha portato a fare una ricerca personale proprio sulle figure ritmiche del maracatu, ascoltando sia i brani più tipici, sia le registrazioni originali dei musicisti di Bahia.
Magari una prossima volta ti capiterà di integrare nella tua musica certi ritmi tradizionali italiani… una taranta o una pizzica... Non so, non sono un esperto conoscitore della tradizione italiana… [ride] ma posso dire che i ritmi afro-cubani li conosco bene! Sai, io sono cresciuto in un quartiere dove la maggioranza dei miei vicini erano cubani, portoricani, dominicani... Negli anni Cinquanta in tutti gli Stati Uniti, ma soprattutto a New York, si era nel pieno della cosiddetta “Mambo Craze”… tutti erano pazzi per il mambo.
A New York, il Birdland [storico jazz club] stava a due passi dal Palladium! [altrettanto storico teatro night club in cui si ballava al ritmo di salsa e mambo] Jazzisti e salseri si incontravano di continuo, la radio trasmetteva musica latina, R&B e jazz: la commistione di stili era proprio nell’aria e, come musicista, sono cresciuto respirando quell’atmosfera... Tito Puente e Miles Davis, Max Roach e Joe Cuba. Nel ritmo di quella musica c’era qualcosa di speciale che mi ha colpito da subito. In pratica, mi sono innamorato immediatamente dei ritmi afrocubani e, naturalmente, del jazz. Dopo tanti anni quella passione non è cambiata e, anzi, mi interessa sempre di più andare a ricercare sfumature ritmiche rovistando soprattutto tra la musica della tradizione latino-americana.
La maggior parte di questi stili si basa sulla commistione di più percussionisti che suonano insieme; nelle vesti di batterista, come traduci quelle parti in un groove o in un pattern sulla batteria? Bella domanda! Al principio andavo d’istinto, cercavo di suonare quello che sentivo... Ma è stato quando mi sono trasferito a New York che ho veramente imparato ad analizzare e suonare quei ritmi come si deve. Fondamentalmente, la batteria è nata per sostituire 3 o 4 percussionisti che suonavano in uno stesso ensemble. Tempo fa Joe Jones mi ha raccontato che nei primi del 1900, quando Jelly Roll Morton e altri compositori suoi coetanei cercavano di assoldare elementi per le loro band, si rivolgevano ai musicisti di strada. New Orleans era piena di musicisti eccezionali che allora suonavano in strada nelle marching band – uno i piatti, uno il rullante, uno la cassa – ma non era certo possibile gestire una band di jazz o rag-time come una marching band da parata e così si sono dovuti inventare la batteria. Una cassa in terra, uno stand improvvisato per metterci il rullante e uno per il piatto... E’ proprio quello che mi ha raccontato Joe: la batteria è nata per condensare in uno il lavoro di tre o quattro percussionisti impegnati contemporaneamente nello stesso contesto. Tornando ai ritmi di percussioni, quello che ho imparato lo devo soprattutto a Steve Berrios, un eccezionale musicista portoricano che non solo conosceva alla perfezione la musica latina ma sapeva suonare benissimo anche il jazz... “ He could swing jazz drums!” Lui, Bobby Sanabria e Willie Bobo. Ascoltare e assistere alle loro performance mi ha insegnato moltissimo riguardo al trasferire sulla batteria certi ritmi come il mambo, il guaguanco o la rumba. Se avessi qui una batteria ti farei sentire [comincia a tamburellare con le dita sul tavolo] Senti? Il guaguanco per esempio mette l'accento sull'1 e sul 3, non sul 2 e sul 4 come accade col jazz... dunque, puoi usare il charleston per accentare l’1 e il 3 mentre usi gli altri pezzi del drumkit per suonargli intorno… [continua a tamburellare sul tavolo canticchiando i suoni di charleston, cassa e tom] Ecco quindi una simulazione di guaguanco applicata alla batteria. Un altro esempio è il cosiddetto Bembe-feel di Elvin Jones; noi, la cultura occidentale, lo potrebbe definire un terzinato, o un 6/8, mentre invece è... Bembe! Insomma, bisogna studiare parecchio la struttura e soprattutto il feel di quei ritmi.
In Samba de Maracatu hai suonato la batteria, le percussioni, il vibrafono; hai studiato gli arrangiamenti ed hai composto alcuni pezzi della tracklist... ti sei occupato anche della produzione? Sì, ho anche prodotto l’album. In principio saremmo dovuti andare a registrare negli studi della Universal... Blue Note, a New York. Ma con tutti i problemi legati alla pandemia, non era il caso di muoversi. Io vivo qui nel North Carolina e non avevo certo voglia di andare proprio nel centro della pandemia statunitense. Così mi sono dato da fare per trovare musicisti e studio qui dalle mie parti... E’ stata dura trovare uno studio aperto, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, e JK ed io [JK Loftin è il personal audio engineer di Joe Chambers] abbiamo registrato tutti i brani...
...Sì, ti abbiamo visto in video [https://youtu.be/_NPF5G1ngZc] mentre provavi in una sorta di studio/palestra con poster di Bruce Lee e bilancieri dietro alla batteria. Avete registrato lì tutto l’album? Sì… Era proprio quello il posto che abbiamo trovato! [ride] In realtà, gli overdub li ho fatti a casa mia; tutte le percussioni e le parti di vibrafono, le abbiamo registrate in soggiorno!
Quindi tutto era già stato strutturato ed arrangiato a priori, nessun brano della tracklist è nato direttamente in sala prove… Certo, i pezzi originali erano pronti già prima di entrare in studio ed alcuni li avevo già registrati per Landscapes (2016); altri pezzi sono dei classici intramontabili che io adoro e che in questo disco ho ripresentato con musicisti e arrangiamenti diversi: quindi, si trattava soltanto di prepararli insieme e registrarli.
Standard, classici, tue composizioni originali, e poi salta fuori un rap... New York State Of Mind Rain. Dietro quel pezzo c’è lo zampino di mio figlio! E' stato lui a convincermi a prepararlo. Hai mai sentito parlare di un rapper che si chiama NAS? Beh, a suo tempo aveva pubblicato un suo rap, NY State Of Mind [presente su Illmatic, album del 1994 che ha spopolato negli Stati Uniti per tutta la seconda metà dei Novanta] sfruttando il campionamento di un mio pezzo, Mind Rain. Da allora sono passati degli anni e, proprio mentre stavo pensando di registrare Samba de Maracatu, mio figlio mi ha ricordato quel brano e mi ha convinto a rivisitarlo a modo mio. Mi ricordo che alla Blue Note [l’etichetta discografica] erano tutti un po’ titubanti: “Vuoi fare un rap? Usare dei campioni?” No, no, ho detto loro: “I don’t sample!”
Alla fine il pezzo è stato suonato, la musica e gli arrangiamenti sono miei, mentre il testo è proprio di mio figlio... In realtà, si tratta di una risposta alla versione di Nas. Lui mi ha campionato e io ho suonato! [ride] In fondo si è trattato di un gioco: è un brano divertente, diverso, e l’arrangiamento certamente non è il più rappresentativo del disco. Se penso a Samba de Maracatu, penso soprattutto a Sabah el Nur, che tra l’altro è il mio pezzo preferito, oppure a Never Let Me Go, un pezzo fantastico!
Anche la versione di Circles è notevole... Sì, Circles è un pezzo nato per le percussioni. Il titolo, peraltro, rispecchia la natura intrinseca del pezzo, una composizione che ruota, si ripete e... gira in cerchio; proprio la circolarità della sua struttura sta alla base di tutto l’arrangiamento. Oltre alla batteria ho suonato anche le parti di percussioni, nonché il vibrafono. Mi è piaciuto molto anche come ha suonato Brad [Brad Merritt, pianista e tastierista], pensa che è un medico!
Ma dai... Sì, un vero medico che cura le persone… oltre che un eccezionale pianista!
Quale batteria hai utilizzato per registrare? La batteria che era già nello studio. Mi sembra che fosse una Tama ma il modello certamente non lo ricordo. In tutti i casi, un normalissimo drumkikt da cinque pezzi con cassa da 22”. Niente di particolare. Non sono più tanto interessato al drumkit in sé e per sé, mi vanno bene tutti, ma ciò che fa la differenza sono le pelli e per quel che mi riguarda, sono necessarie pelli nuove per tirare fuori un suono dalla batteria. Naturalmente il legno dei tamburi e tutto il resto hanno la loro importanza ma, seriamente, quello di cui ho veramente bisogno sono “pelli fresche”.
Qual è la tua definizione di groove? Mmh... è una domanda difficile. Il concetto di groove o swing per me è indefinibile a parole ma... aspetta un attimo, prendo un elastico e torno subito. Eccomi. Quando faccio le mie clinics mi capita spesso di affrontare il discorso del timing e quando qualcuno talvolta parla del suonare sul tempo (“play time”), io mi affretto a dire: “we don't play time, we play pulse” [letteralmente tradotto: non suoniamo sul tempo, suoniamo sulla pulsazione] – Joe Chambers mette l’elastico intorno al pollice della mano destra e con due dita della sinistra ne tira l’estremità – Vedi, il pollice è il tempo, e dall'altra parte c’è la pulsazione. Non è una posizione fissa e determinata, si avvicina e si allontana dal tempo metronomico ma ne è sempre attratta... L’elastico si allunga e si accorcia, noi suoniamo questo movimento e interpretiamo il tempo. I batteristi, i percussionisti e qualsiasi altro musicista è legato al tempo in maniera naturale ma in realtà interpreta e suona la pulsazione. Groove e swing non si possono definire a parole, niente swinga più della musica cubana o africana, ma anche Bach ha il suo swing. E’ la pulsazione che crea l’emozione. Il movimento che i musicisti propongono mentre suonano e interpretano l’andamento del pezzo, dà vita alla percezione dello swing o del groove.
Hai cominciato molto presto a suonare batteria e pianoforte... cosa ti ha spinto al successivo passo verso il vibrafono? Quando Max Roach ha messo insieme M’Boom, il suo combo di percussionisti, tutti noi abbiamo dovuto imparare a suonare diversi strumenti. Vibrafono, marimba, timpani e, prima che arrivasse Ray Mantilla, abbiamo dovuto imparare a suonare correttamente anche le conga. Io sapevo già suonare il pianoforte, conoscevo la tastiera, le note e gli accordi, quindi il vibrafono mi è apparso intuitivo fin dal principio. Certo, c’era da imparare la tecnica delle bacchette, che peraltro sto perfezionando a tutt’oggi, ma la transizione al vibrafono è stata semplice per me. In realtà ora mi considero soprattutto un vibrafonista, un mallet player... Specialmente in questo album, l’accento l’ho messo proprio sul vibrafono... Suono anche la batteria e le percussioni, certo, ma… I’m the vibe player!
E’ davvero infinito l’elenco degli artisti top con cui hai collaborato: se però tu dovessi nominarne uno con cui non hai mai suonato ma che ti sarebbe piaciuto farlo, chi diresti? Monk. Thelonious Monk. Mi sarebbe proprio piaciuto avere l’opportunità di accompagnarlo e condividere il suo palco... sarebbe stata una esperienza unica davvero. Ora che mi ci fai pensare, aggiungo Horace Silver. Io credo che Horace possa essere definito uno dei più grandi compositori degli anni Cinquanta/Sessanta; prendi Ecaroh, ad esempio, è un pezzo fenomenale. Prova a rallentarlo e prova a farlo anche con The Outlaw, ulteriore pezzo formidabile, e ti renderai conto che sono composizioni eccezionali, al livello di Rachmaninov o Liszt!
Il jazz si è evoluto negli anni, talvolta lasciando per così dire la via maestra ed al contempo arricchendosi di nuovi elementi stilistici: credi che si presenteranno nuove e future direzioni, in grado di comportarsi alla stregua del mutamento portato dal movimento bebop? Penso di no. E penso che molto dipenda dal fatto che oggi la didattica jazz sia diventata un big business. Ci sono un'infinità di scuole di jazz e persino tutte le più importanti università di questo Paese hanno un dipartimento dedicato alla musica jazz. Naturalmente non è un male ed anzi, è uno dei traguardi raggiunti dopo le battaglie della comunità afro-americana per i diritti civili e per la divulgazione della propria cultura; dal 1960 ad oggi si sono fatti notevoli passi in avanti in questo senso e l’insegnamento del jazz con tutto quello che ne deriva è una cosa molto importante. Io ho insegnato e insegno ancora in varie scuole ma... non si può veramente imparare il jazz a scuola! A scuola puoi perfezionare il tuo orecchio, puoi imparare a leggere la musica, eventualmente puoi imparare ad arrangiare, ma il jazz lo devi apprendere per forza sul campo. Oggi la società, la direzione che ha preso il mondo della musica e parallelamente anche l’impostazione dei programmi didattici, hanno ucciso l’apprendistato. I ragazzi vanno a scuola, si diplomano, e pensano di aver imparato tutto, ma non si concentrano sul suonare in una band, magari al fianco di musicisti esperti. Non dico che le scuole non siano importanti, lo sono eccome; dico che manca proprio l’apprendistato sul campo, quella speciale crescita personale che puoi sviluppare soltanto in quel modo. C’è una frase di Paul Desmond che riassume molto bene il concetto: “Si può imparare il jazz ma non lo si può insegnare!”
Samba de Maracatu – tracklist 1 You and the Night and the Music 2 Circles 3 Samba de Maracatu 4 Visions 5 Never Let Me Go 6 Sabah el Nur 7 Ecaroh 8 New York State of Mind Rain 9 Rio