CHARLIE WATTS "It's Only Rock n Roll (but I Like it)"
Eugenio Palermo 29 ago 2022
Ottobre 1984. In un hotel di Amsterdam i Rolling Stones sono riuniti per discutere del futuro della band. Alle cinque del mattino Keith Richards e Mick Jagger, marci duri da un’altra serata gloriosa messa in archivio, rientrano in stanza. A Mick, ancora su di giri, viene lo schiribizzo di telefonare all’ineffabile Charlie Watts.
Inutilmente Keith prova a distoglierlo dal proposito molesto. Mick chiama nella stanza di Charlie, mezzo rincoglionito e pienamente disturbato da quella telefonata. “Ehi, dov’è il mio batterista?” Fra le sghignazzate e colpi di gomito (già abbastanza elevati quella notte) dei due satanassi, Charlie riattacca senza aver proferito una sillaba. Dopo venti minuti, si materializza alla porta della loro stanza, appena rasato e indossando un impeccabile completo Savile Row con tanto di cravatta, charmant e tutto d’un pezzo. Scansa Keith che gli apre sbalordito la porta, mette nell’obiettivo Mick, lo afferra per la collottola e, sibilandogli: “non chiamarmi mai più il tuo batterista” gli smolla una gran ghega in pieno volto. Mick frana su un vassoio d’argento di salmone affumicato per poi decollare in direzione della finestra aperta, ed è soltanto il riflesso di Richards - afferrandolo per un piede - ad evitargli di finire in uno
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dei canali di Amsterdam, Prima di congedarsi dagli attoniti astanti Charlie lascia una chiosa finale: “Sei tu il mio fottuto cantante del cazzo!”
Romanzate o meno, le cose stavano davvero così. Perché quando Charlie Watts vi entrò nel 1963, i Rolling Stones erano ancora quattro scappati di casa senza arte né parte, e lui la stella. A tal punto che pur di pagargli l’ingaggio di cinque sterline a settimana, la band si era ridotta letteralmente alla fame. Charlie era infatti il batterista della Blues Incorporated di Alexis Korner, colui che per primo aveva portato il Chicago-blues in riva al Tamigi. Jagger, che saltuariamente aveva cantato in quell’incredibile fucina di talenti, era stato colpito da quel batterista compassato ma preciso come un metronomo, e aveva pensato che alla sua band per svoltare, serviva proprio un batterista così. Charlie aveva accettato ma senza rinunciare al suo consueto lavoro di grafico, perché era convinto che il rock n roll sarebbe durato cinque minuti.
E invece ha finito per trascorrere 58 anni, seduto sulla seggiola della più gigantesca e longeva band che la musica popolare ricordi, alla quale ha impresso il suo iconico timbro scarno, scandendone impeccabile il tempo sia suonassero rnb, sia che si dedicassero a beat, psichedelia, glam o disco. Inossidabile, insieme ai due Glimmer Twins, a qualunque eccesso, tragedia, scandalo, lite, reato, apoteosi, moda. Sempre con quel tocco minimale ma costante, come la sua carriera. Sempre con quella faccia lì, di chi sembra dire “che diavolo ci faccio qua?” ma intanto, sornione, se la gode. Elegante nei suoi completi di percalle e imperturbabile come una sfinge, mentre tutto intorno è sesso, droga e rock ‘n’ roll. O peggio, come quando Brian Jones fu ritrovato cadavere nella sua piscina; o come quando gli Stones organizzarono il Festival di Altamont e la fiumana hippie esondò in violenza e morte mentre la band, presa anche a pugni sul palco, scappava via in elicottero, come i marines più tardi a Saigon; o come quando sfuggirono rocambolescamente al fisco inglese e ripararono in Costa Azzurra, registrando il maledetto Exile On Main Street in una tossica e vampirica jam nel sordido scantinato di una villa belle epoque trasformata da Richards - fra spacciatori, poeti, battone e scrocconi - in una comune bohémien.
Un jazzista purosangue, amante di Miles Davis, John Coltrane, Charlie Parker, Chico Hamilton, Sonny Rollins, che aveva iniziato a tredici anni trasformando un banjo in un rullante per poi iniziare, ovviamente autodidatta, sul drumkit basico che i Watts (Charles camionista e Lilian operaia) gli avevano regalato svenandosi. Poi l’incontro con l’rnb grazie al fraterno amico Dave Green, l’esperienza con Korner e poi l’ingresso negli Stones nonostante non avesse niente a che spartire con i loro deliri: “Per risparmiare sull’affitto”, ridacchierà Charlie, trasferitosi bacchette e bagagli nel loro appartamento, nel gennaio del 1963. In quella gabbia di matti venne travolto dal fanatismo di Richards e Jones per il blues di Jimmy Reed ed Elmore James scoprendo così Dj Fontana, Earl Phillips, Earl Palmer, Joe Morello… Ma sempre mantenendo il suo tocco morbido e swingante. Per Richards “Charlie era il roll degli Stones”, cioè l’anima jazz che batte nel rock, anche in un’epoca in cui avanzavano i picchiatori di pelli, anche quando il manager Oldham convinse la band che con le cover rnb si rimaneva in bolletta e bisognava buttarsi nel filone dei Beatles, dei pezzi propri da dare in pasto alle teenagers. Da lì l’inizio della loro mitologia con Satisfaction: nient’altro che l’istituzione della batteria rock.
Se in quegli inizi inizi Jones era il guru, Watts invece era, e sarà sempre, la chiglia che impediva al vascello di rovesciarsi e disperdere i suoi pirati, il timing sul quale sincronizzare tutto: riff e assoli, dipendenze e rivalità, successi e miserie, dischi e tour. Quei tour che non amava perché - ben presto troppo esagerati, infiniti - lo portavano sempre troppo lontano dall’adorata moglie, l’artista Shirley Ann Shepherd, la prima e unica, per amore della quale non suonava in casa la batteria, sposata nel 1964 in gran segreto per non distruggere l’immagine da teen idol costruita sapientemente da Oldham. Un matrimonio stoicamente saldo nonostante i marosi che avrebbero fatto naufragare chiunque, perché come diceva Richards: “La vita è una sola, e quella dei Rolling Stones è la migliore possibile.” Provate a entrare da Rolling Stone nella villa del boss di Playboy Hugh Hefner e uscitene immacolati, scansando le decine di conigliette che vi si buttano addosso. Impossibile? Non per Charlie. Perché Charlie era l’unico che non ci credeva, ricorda Jagger. Proprio perché, in fondo, “era solo rock ‘n’ roll.”
Seduto dietro alla sua autarchica Gretsch del 1957 di quattro pezzi, con il china (l’italianissimo Ufip) al posto del crash e messo al contrario, non rubava mai l’occhio perché lui buttava giù, in traditional grip, le fondamenta del pezzo, quelle che poi permettevano alle pietre di rotolare scatenate dai palchi senza perdersi. Quelle con cui ha governato l’ingovernabile. Charlie non era il migliore, non gli è mai interessato: era unico. Ai 7/4 o ai volumi apocalittici preferiva concentrarsi su quel ritmo che ha permesso al tuo piedino di battere almeno una volta nella vita su un pezzo degli Stones, sognando di fare baldoria come loro. Eclettico e inconfondibile poi nelle sue risonanti entrate della madonna, come il campanaccio di Honky Tonky Woman, il rullante samba di Sympathy For The Devil, il levare da urlo di Tumbling Dice, il rombo con cui squarcia in Sister Morphine, l’aritmia dei doppi rullante di Can’t You Hear Me Knocking (e il suo interludio jazz…?), la scheletrica e barricadera cassa in anticipo della batteria giocattolo di Street Fighting Man, le ghost notes di Under My Thumb o la sghemba e sfasata Midnight Rambler, tenuta su dal suo tiro legnoso. Spettacolarmente legato con il basso seducente di Wyman e consapevole, con quella rilassatezza tipica del jazz, che con quei cavalli di razza là davanti bisognava limitarsi ai dettagli, all’essenziale, al less is more. Come togliere il charleston sul backbeat del rock ‘n’ roll, un gesto celeberrimo per donare languore e spazio agli inimitabili incastri e rotture con gli accordi aperti, ruvidi, del gemello diverso Richards, una sottrazione che rendeva più pesante e solenne la sua pacca sul rullante. Uguale e precisa a quella smollata a Jagger per rinfrescargli come stavano davvero le cose.
2021 - Un palco vuoto e qualche ritmo di batteria. Sui maxi schermi scorrono le foto di Charlie Watts. Così si apre la prima data del No Filter Tour. “Questo è il nostro primo tour in assoluto che abbiamo mai fatto senza di lui”, commenta un commosso Mick Jagger. Dopo la seconda canzone, "It’s Only Rock and Roll", gli Stones, mano nella mano, si sono avvicinati al pubblico per ringraziarlo dell’affetto nei confronti di Watts. Poi, gli hanno dedicato "Tumbling Dice".